La strada per l'estinzione è lastricata di comodità
- Alvise Bortolato
- Feb 27, 2022
- 8 min read

L’istinto alla comodità e il tecno-habitat
Da quando esistiamo come specie, l’istinto a ricercare una maggiore comodità (i.e. efficienza funzionale) ha orientato gran parte delle nostre attività. Un’ampia fetta dei nostri sforzi gravita – e ha gravitato – attorno al concetto di comfort. Avere un rifugio – che sia un’abitazione o dei vestiti – per proteggersi dal clima significa rendere più accogliente l’ambiente, creando una sorta di barriera che ce ne separi e ce ne protegga, pur continuando a vivere e operare al suo interno. Modifichiamo gli habitat perché senza il nostro tecno-habitat saremo una delle forme di vita meno adatte alla sopravvivenza. La strategia si è rivelata decisamente efficace: siamo proliferati al punto che le nostre attività antropiche hanno colonizzato il Pianeta stravolgendo gli ecosistemi in maniera irreversibile.
Se in prima battuta la creazione di un habitat tecnologico fu dettata all’istinto di sopravvivenza, ben presto è divenuta il marchio dell’espansione e del dominio che la nostra specie ha imposto all’ambiente naturale. A parte rare eccezioni, la gran parte della specie umana vive immersa in un habitat tecnologico – città, mezzi di trasporto, case, vestiti – che si evolve in contesti più o meno antropizzati da millenni di attività umane.
Elettricità e acqua potabile 24h, elettrodomestici, domotica, mezzi di trasporto e strade asfaltate, impianti di riscaldamento e aria condizionata sono solo alcuni dei comfort che riteniamo non solo imprescindibili, ma pure scontati in quello che viene definito Primo Mondo. Da queste parti ci sembra un anacronismo lavare i piatti a mano o fare il bucato, siamo abituati ad aprire il cancello di casa cliccando un pulsante del telecomando e, alcuni di noi, chiudono le imposte di casa grazie a sistemi automatizzati.
Il mondo appare completamente diverso dalla nostra apparizione e pochissimi habitat restano vagamente incontaminati. La diffusione della società dei consumi di massa, originatasi in Occidente e poi sparsa ai quattro angoli del globo, ha prodotto un’accelerazione al consumo di risorse ben oltre la loro capacità di rigenerarsi.
Oggi si lavora sodo per creare auto migliori, case migliori, vestiti migliori, servizi migliori. Ma migliori da che punto di vista? Il principio che guida queste innovazioni è quello di offrire maggiore comfort nello spostarsi, nel vivere e nel riposo domestici, nel vestire. Insomma, fare cose che più o meno abbiamo sempre fatto, ma facendo meno fatica o traendone maggior godimento. La sostenibilità, ad ora, si inserisce nell’equazione con lo scopo – decisamente più utilitaristico che ambientalista – di stroncare sul nascere il senso di colpa ecologico legato al consumo privo di necessità.
Ma cos’è che spinge tutti a produrre sempre di più e al contempo gli impedisce di smettere, anche di fronte all’evidente insostenibilità della faccenda? Davvero la narrazione capitalistica è riuscita a radicarsi così in profondità nella cultura da spazzare via ogni altro possibile orizzonte esistenziale?
“Le comunità virtuali non costruiscono nulla. Non ti resta niente in mano. Gli uomini sono animali fatti per danzare. Quant'è bello alzarsi, uscire di casa e fare qualcosa. Siamo qui sulla Terra per andare in giro a cazzeggiare. Non date retta a chi dice altrimenti.”
Kurt Vonnegut
Avidità e pigrizia sembrano due valori opposti ed inconciliabili. Eppure, il nostro modello di sviluppo economico è riuscito a renderli due facce della stessa medaglia. La pigrizia non è solo legata al non fare ma anche al fare più comodamente. La tensione umana alla pigrizia è stata intercettata dal capitalismo che l’ha resa carburante per la propria dissennata espansione. Ma qual è il legame?
Il legame, mi sembra, è tra chi ha capito come sfruttare questa cosa e il resto del mondo. Alcuni hanno compreso che il modo migliore per mungere le masse è far leva sull’istinto alla comodità.
Dalle macchine a vapore fino alle app, le innovazioni di maggior successo hanno utilizzato la pigrizia come leva. Pigrizia è “ma che vuoi che cambi” quando decidiamo di fare uno sforzo in meno (e delegarlo a una qualche tecnologia). Amazon consente di procurarsi praticamente ogni bene di consumo senza muoversi dal proprio divano, i social offrono (l’illusione di) una vita sociale senza dover fare davvero i conti con le complessità dei rapporti umani in carne ed ossa, Ikea permette di arredare una casa andando in un unico negozio, e così via.
Il paradosso di una società iper-produttiva è che ha bisogno della pigrizia per vincolare gli individui al meccanismo. La promessa illusoria di un comfort crescente spinge le persone a performare sempre più nella speranza di ottenerlo.
Più si lavora, più si cerca un ristoro (e si sente di meritarselo). Se oltre a lavorare molto si guadagna anche, si cercheranno forme di ristoro più esclusive e a lungo termine. Più la povertà accorcia la prospettiva, più ci si rifugia in forme di godimento immediate ed effimere. Pigre, oziose, rassicuranti.
Il lato distruttivo della comodità
E voi direte, ma qual è il problema?
Il problema è che la fatica da cui veniamo sollevati va a impattare da qualche altra parte, e il fatto che non consumiamo le nostre energie non significa che non ci sia un consumo energetico. Doppiozero - Inquinamento Digitale
Il paradosso è che la spasmodica brama di comodità ci sta consegnando un ambiente, all’opposto, invivibile. La ricerca di comfort non fa che rendere il pianeta più scomodo, più complesso, più povero.
Gli esempi si sprecano.
Le isole di calore cittadine che costringono a consumare sempre più energia (producendo calore ulteriore) per viverci dentro senza morire di caldo. Non serve pensare alle città costruite iper-futuristiche nel deserto, come Dubai o Doha, è sufficiente osservare le città italiane in cui molti di noi vivono. Il cemento e l’asfalto continuano, al di là dei proclami e di qualche sporadica iniziativa di facciata, a usurpare il verde perché quest’ultimo necessita di una manutenzione costosa che, in apparenza, non produce profitto economico (nonostante gli alberi siano il miglior alleato che abbiamo per mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici).
L’innovazione “sostenibile” dei trasporti che, guarda caso, è rivolta sempre al trasporto privato (più comodo) anziché a quello pubblico, che risulterebbe decisamente più impattante. Anche qui, la leva è la comodità di avere sempre una macchina sotto al culo.
Il far scegliere ad un algoritmo la provenienza di ciò che vogliamo acquistare al prezzo più conveniente, chiudendo gli occhi sull’impatto ambientale e sociale di un frutto o un paio di jeans o uno smartphone che, per giungere a noi, contribuiscono alla distruzione di ecosistemi con le monoculture, le miniere, gli sversamenti di sostanze chimiche, per poi viaggiare lungo una supply chain globale con relative emissioni.
La desertificazione risultante dalle colture intensive che impoveriscono il terreno di nutrienti e che prosciugano le falde, principalmente per produrre mangime con cui nutrire animali da macello per inondare il mercato di carne a basso costo.
Insomma, le assurdità e i paradossi a cui c’ha condotto la nostra fame di comfort e benessere sono molteplici e, inevitabilmente, ci stanno presentando un conto salatissimo.
Se pensiamo che la nostra ossessione per il comfort non abbia a che fare con la siccità che stiamo attraversando in gran parte d’Italia siamo fuori strada. Se ad un certo punto, come altamente probabile, toccherà razionare l’acqua sarà sì per un clima che cambia, ma anche perché la nostra rete idrica (non) può permettersi di sprecare in media il 42% di quella che trasporta – con picchi dell’80% in alcune provincie.

Distopie confortevoli
Alimentiamo lo stesso sistema che ci aggredisce sia fisicamente con l’inquinamento e l’insalubrità della gran parte dei prodotti industriali – cibo, vestiti – con cui entriamo a contatto, che umanamente con burnout, depressioni, ansie. Un sistema che c’ha resi tutti smanianti di desideri molteplici ma incapaci di provare soddisfazione, proprio perché la prospettiva stessa di realizzarli li rende, d’un tratto, indesiderabili.
Spesso cerco di prevedere dove ci porterà tutto questo. Le tecnologie tendono a rendere più semplici le operazioni funzionali al sistema: produrre e consumare a ritmo crescente. Spingendo all’estremo, immagino gli esseri umani ridotti a pingui larve inermi, comodamente sprofondate nel divano di casa, a battere su una tastiera lavorando per qualcuno che non si sa nemmeno che faccia abbia, in cambio di denaro da spendere consumando online servizi e prodotti (che arriveranno comodamente a domicilio).
La comodità di affidarsi agli algoritmi, specie nelle scelte di consumo, produce sempre più un inevitabile appiattimento in cui tutto, alla lunga, sarà consumato in base al profitto di chi lo produce. Se tutto passa per la Rete, a saltare è il fattore umano (quello che si trova ancora in certi negozi fisici) e con esso la creatività, la varietà e l’unicità.
La cieca fede nella Tecnologia Salvatrice
Infine, il comfort reale è ad appannaggio di pochissimi, le illusioni e lo sfruttamento di molti.
La decadenza che percepiamo sempre più intensamente attorno a noi in questo Occidente al crepuscolo, pur senza volerlo ammettere, ci fa assumere lo stesso atteggiamento della Roma tardo imperiale o di altre società al collasso: più si avvicina il crollo, più si cerca di occultarlo con atti eclatanti e promesse utopiche completamente sconnesse dalla realtà.
La rassicurante fede cieca nella Tecnologia Salvatrice che ci fa credere che qualcosa di risolutivo cadrà miracolosamente dal cielo, non ci resta che aspettare. Induce una pigrizia mentale pericolosissima, in cui ci si affida a un imprecisato “gli altri”. Il fatto che la tecnologia (vista sempre in contrapposizione alla natura) ci abbia difeso dalle feroci leggi naturali, permettendoci di far giungere la nostra specie fino a qui, ha instillato in noi una fiducia immotivata rispetto alla crisi ecologica. Ma anche l’attesa del miracolo tecnologico, ora che la Natura ha decisamente alzato l’asticella coi cambiamenti climatici, sembra più un’illusione che una reale possibilità. E produce storture.
Ad esempio, l’ingegnarsi per colonizzare Marte (non esattamente un pianeta ospitale) anziché adattarci e ricalibrare i nostri comportamenti sulla Terra per preservare le condizioni che ci permettono di sopravviverci. La scusa che serve a sviluppare tecnologie “di cui tutti trarranno vantaggio” mi sembra l’ennesima menzogna di un’elitè che sviluppa soluzioni solo ed esclusivamente alla propria portata. Nessun miliardario vuole andare su Marte per salvare l’umanità. Al massimo, a spingere Musk e compagnia bella è il desiderio di salvare sé stessi e l’esigua parte di umanità necessaria a conservare le proprie illusioni di superomismo date dal proprio potere economico.
Ozio riflessivo e mentalità eco-centrica
C’è un’attività che si contrappone al fare, al produrre forsennatamente per ottenere in cambio del confortevole ristoro: il pensare. Banalmente, chiederci: “che cazzo stiamo facendo e in che direzione ci sta portando?”
La pigrizia andrebbe incanalata per renderla vantaggiosa, facendola sfociare in un ozio intellettualmente costruttivo che ci sottragga almeno per un po’ al vortice del fare, consentendoci di analizzare quanto più lucidamente possibile le implicazioni della situazione in cui ci troviamo.
Pensare di più e pensare meglio, per rendere intelligente (in termini di adattamento e sopravvivenza) il modo di fare le cose, capendo cosa vale la pena fare e come farlo nel modo migliore da un punto di vista di durabilità delle risorse (e quindi di impatto ambientale). Assumersi personalmente una quota di responsabilità e comprendere che certe comodità individuali immediate si rivelano dannose a lungo andare per tutti, che gran parte delle ‘novità’ del mercato non migliorano nulla se non i fatturati di chi le produce, finendo per essere tutt’al più uno specchietto per le allodole, l’ennesimo oppio per i popoli. Se in breve tempo non si riuscirà ad innestare una mentalità eco-centrica nei nostri comportamenti e, di conseguenza, nel nostro modello produttivo e di consumi, non faremo che accelerare la nostra corsa verso il punto di non ritorno, ammesso che non l’abbiamo già superato (come sempre più evidenze scientifiche sembrano indicare).
L’alternativa è ingozzarci di comfort il più possibile finchè dura, consapevoli che il conto arriverà implacabile. Insomma, procedere a spron battuto verso tempi peggiori, ma stando comodi.
Quasi che il canto del cigno della specie umana sia l’estinzione più comoda che si sia mai vista sulla faccia della Terra.