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Fantasie apocalittiche per creature smarrite in società irrazionali

  • Writer: Alvise Bortolato
    Alvise Bortolato
  • Oct 18, 2021
  • 6 min read

«Questa società – basata su una travolgente razionalità, motore di efficienza e di sviluppo – è nell’insieme irrazionale. La sua produttività tende a distruggere il libero sviluppo di facoltà e bisogni umani. Il fatto che la grande maggioranza della popolazione la accetti e sia spinta ad accettarla, non rende la società presente meno irrazionale e riprovevole».

 

L'uomo a una dimensione - H.Marcuse






Qualche tempo fa ho fatto un sogno.

In questo sogno ero l’unico a sapere che il mondo si stava trasformando, ineluttabilmente, in un luogo inadatto alla vita della specie umana. Camminavo per una città imprecisata, stranito di come tutti continuassero con la loro vita di sempre: le persone andavano a lavorare, si indebitavano aprendo mutui per comprare case, risparmiavano e accumulavano per un futuro imprecisato.

Io mi affannavo per spiegare loro che, con assoluta certezza, nei successivi trent’anni avremmo dovuto fare i conti con sconvolgimenti climatici e le conseguenti guerre, carestie, pestilenze, migrazioni che avrebbero fatto passare in secondo piano qualsiasi ambizione e velleità di benessere schiacciandole su un’ottica di adattamento repentino per sopravvivere.

In tre decenni, ripetevo come un’improbabile Cassandra, il clima avrebbe reso difficile vivere in gran parte del Pianeta, il capitalismo sarebbe collassato definitivamente e con esso la produzione industriale e il consumo globale usa e getta. Le civiltà e le nazioni avrebbero fatto in breve tempo la stessa fine.

Eppure, nessuno di coloro che incontravo nel sogno sembrava prendermi sul serio. Annuivano come a darmi il contentino e continuavano per la propria strada, lasciandomi disperato perché la terribile profezia che rivelavo loro era per liberarli dal peso del futuro, per invitarli a godersi la vita in quel momento. Un invito ad accudire il Pianeta man mano che sarebbe mutato, consapevoli che quel mutamento ci avrebbe infine spazzati via.

 

Il fatto curioso è che al risveglio mi sono sentito rasserenato. Ancora in dormiveglia ho provato la sensazione di leggerezza di non avere futuro, di essere un condannato a morte (ma assieme al resto della specie umana e del mondo per la concezione contemporanea che se ne può avere). Ciò che ho provato è stato un senso di liberazione.

In momenti ad alto tasso di nichilismo di fronte la crisi climatica, mi convinco che siamo già fottuti e che quindi l’atteggiamento più sensato sia quello del topo che, con la spina dorsale spezzata dalla trappola, si gode il suo ultimo pezzo di formaggio. Godersi il qui ed ora, svincolandosi dalla mentalità di accumulo per un futuro che non ci sarà.

 

Sfrutto questo aneddoto onirico per evidenziare un sentimento trasversale alla generazione cui appartengo e che, con ogni probabilità, riguarderà anche quelle future (ammesso che ci saranno).

Il peso della pressione sociale costante che ci spinge a gettarci in questa grande mischia che sono solito chiamare: la guerra per le briciole.

Un bombardamento retorico che ci spinge ad essere individualisti, a investire tempo ed energie in una gara – quella del successo personale – la cui posta in palio è subordinata a quella di un altro gioco, stavolta non per le briciole, a cui le generazioni più giovani non sembrano essere state invitate: come adattarsi ad un pianeta in mutazione accelerata e radicale che mina le condizioni che ci permettono di viverci.

In sostanza, anziché cooperare nello sforzo corale per “spegnere la casa che brucia” (che poi sarebbe “come co-vivere in una casa che brucia sempre più spesso”), veniamo indottrinati a salvare soltanto noi stessi all’interno della società, fingendo di ignorare che anche le società umane rispondono ad un ordine superiore, quello del sistema naturale. Anziché spegnere l’incendio assieme agli altri, pensiamo a come renderci individualmente ignifughi e a come procurarci una via di fuga, magari verso un altro pianeta.

Siamo spinti a competere l’uno contro l’altro, a massacrare il prossimo e usare il suo cadavere per salire un po’ più in alto. La cosa tragica è che per la gran parte delle volte nemmeno ce ne accorgiamo.

Il sentimento che provo è quello di sconforto di fronte alla totale una mancanza di senso, ad un’irrazionalità connaturata alla società, alla grande cecità circa il fatto che, volente o nolente, le generazioni più giovani (diciamo chi oggi ha meno di 40 anni) dovranno affrontare un compito gravoso, sbrogliare una matassa ingarbugliatissima e rovente e imprevedibilmente metamorfica: i cambiamenti climatici.

Anziché dedicarci a questo, siamo costantemente distratti e disuniti dalla guerra per le briciole, spinti a fare qualsiasi cosa per avere di più: uno stipendio più alto, una casa più grande, più oggetti da possedere e beni da consumare.

Eppure, l’individualismo e la retorica del “se lo vuoi abbastanza e sei pronto a tutto ce la farai” stanno agli antipodi dell’approccio con cui si dovrebbe affrontare il problema.

 

Per prima cosa, bisognerebbe ammettere i nostri limiti e la nostra cecità, e accettare il fatto che non esistano soluzioni lineari a problemi complessi. Anche all’interno del mondo scientifico si sta assistendo ad un cambio di paradigma che punta a riorganizzare la nostra comprensione del mondo a partire da un approccio sistemico che concepisce la realtà non più sulla dicotomia soggetto-oggetto in una visione meccanicistica della realtà ma sull’idea di rete di relazioni co-dipendenti.

 

“Secondo la visione sistemica un organismo o sistema vivente è una totalità integrata le cui proprietà essenziali non possono essere ridotte a quelle delle sue parti; esse invece emergono dalle interazioni e dalle relazioni fra le parti.” La stessa ecologia emerge da questo approccio e ne fa parte integrante. “…l’inizio del XXI secolo è modellato da un profondo cambiamento di paradigma, caratterizzato dal passaggio dalla metafora del mondo come macchina a quella del mondo come rete o network. (…) Può anche essere definito visione ecologica, se il termine ecologico è inteso in un senso più ampio e profondo. La consapevolezza ecologica profonda riconosce la fondamentale interdipendenza di tutti i fenomeni e il fatto che, come individui e come società, siamo tutti integrati nei (e in ultima analisi dipendiamo dai) processi ciclici della natura.”

 

Rete, vita e natura – Maurizio Corrado su Doppiozero (21.9.2021)

 

Già a partire da questo approccio dovrebbe derivare una presa d’atto dei nostri limiti, primo fra tutti quello della vista (il celebre “occhio non vede, cuore non duole”). Iniziare a comprendere che lavarsi i denti con uno spazzolino in bambù serve a poco se si ha mangiato un avocado toast il cui ingrediente principale ha viaggiato per migliaia di chilometri per arrivare al nostro stomaco, o se per tenere contenuti i prezzi viene coltivato in mono-culture che radono al suolo ecosistemi come quello amazzonico.

Che indignarsi per 1500 cetacei massacrati brutalmente alle Fær Øer lascia il tempo che trova se poi si consuma tonno in scatola la cui pesca accessoria uccide 300 000 tra delfini e piccole balene, 250 000 tartarughe marine, 300 000 uccelli marini. https://www.fishforward.eu/it/project/by-catch/ 

 

Renderci conto che siamo tutti (tutto ciò che definiamo vita) sulla stessa barca. Ammettere che siamo esseri fallibili che producono illusioni e occultamenti per mantenere la propria rappresentazione mentale di sé per lo meno tollerabile, che siamo intrisi di sufficiente individualismo da permetterci di ignorare il male che facciamo e che gran parte di ciò che consumiamo con il nostro stile di vita sia insostenibile.

Chi non troverebbe il senso di colpa insopportabile se dovesse essere costretto a passare in rassegna - sia pure sotto forma di Tik-Tok - la scia di morte e distruzione e sofferenza costante che il proprio stile di vita proietta sugli ecosistemi ai quattro angoli del globo?

 

Ammettere, in sostanza, che il semplice fatto di vivere in una società consumistica ci renda responsabili e che ergersi a giudici di ciò che fanno gli altri sia una forma di perbenismo eco-illogico. Ma non per questo affidarsi a stregoni millantatori, agli imbonitori della peggior politica e venditori truffaldini di soluzioni preconfezionate è una buona idea.

Mappe non ce ne sono, toccherà crearle minuziosamente in un’impresa che si può compiere solo assieme, procedendo per prove ed errori. L’apporto di ognuno ha un peso, aggiunge un tassello alla mappatura.

E che non c’è nulla di male a sentirsi persi, soverchiati, impotenti. Temo faccia parte della faccenda in maniera ineliminabile.

 

Non resta che partire da qui, consapevoli che ogni cambiamento costa attenzione, scomodità, sacrificio.

Certo, possiamo rinunciare a questa missione, piazzare la testa sotto la sabbia e tirare a campare sperando di uscirne vivi di volta in volta. Ma tra cataclismi, pandemie, sconvolgimenti sociali, sarà più o meno come giocare alla roulette russa.

A quel punto tanto varrebbe credere alla mia sciocca profezia e godervi l’attesa dell’imminente fine del tempo. Abbandonarsi a fantasie apocalittiche e abituarsi a convivere con la propria finitezza come insegnano le tradizioni mistiche di tutto il mondo. Solo che, stavolta, la finitezza non è più individuale, ma riguarda l’intera specie. Provate davvero ad immaginarla, la fine del mondo per come lo conosciamo.

Forse vi farà sentire meglio. Forse sarà una spinta a far crescere il proprio impegno per “challange the status quo”, accorgendosi di quanto la società in cui viviamo sia profondamente permeata dall’irrazionalità. Un’irrazionalità che appare sempre più suicida.  

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