Ecologia in movimento: la lezione nomade
- Alvise Bortolato
- Jul 22, 2021
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“Il discorso, grosso modo, era questo: l’uomo, umanizzandosi, aveva acquisito assieme alle gambe dritte e al passo aitante un istinto migratorio, l’impulso a varcare lunghe distanze nel corso delle stagioni; questo impulso era inseparabile dal sistema nervoso centrale; e quando era tarpato da condizioni di vita sedentarie trovava sfogo nella violenza, nell’avidità, nella ricerca di prestigio e nella smania del nuovo. Ciò spiegherebbe perché società mobili come gli zingari siano egualitarie, libere dalle cose e restie al cambiamento; e anche perché, nell’intento di ristabilire l’armonia dello stato primigenio, tutti i grandi maestri - Buddha, Lai-tse, San Francesco - abbiano messo al centro del loro messaggio il pellegrinaggio perpetuo, e raccomandato ai loro discepoli, letteralmente, di seguire la Via.”
Bruce Chatwin – Anatomia dell’irrequietezza

C’è qualcosa di magnetico nell’allontanarsi da casa e mettersi in viaggio per un periodo medio-lungo. Un misto di timore e curiosità che produce la vertigine dell’avventurarsi, l’immersione nell’esplorazione, l’irresistibile richiamo al moto, il destino di non avere mai lo stesso tetto sopra la testa né di dormire nello stesso letto per più di qualche giorno.
Ad ottobre 2019 sono partito per un viaggio di circa tre mesi in Centro America con lo stretto necessario chiuso in uno zaino. Da un punto A, Panama City, ad un punto B, Cancun. Nel mezzo, una forma ruvida e vagabonda di libertà che non avevo mai provato prima. Non è del viaggio in sé che voglio parlare ma di alcune cose che mi ha permesso di osservare e sentire e su cui, nei successivi mesi di immobilismo pandemico, ho avuto modo di riflettere a lungo. É strano (e doloroso) parlare del viaggiare proprio ora ma in questo articolo voglio evidenziare alcuni aspetti che, a mio avviso, rendono le esperienze nomadiche fondamentali nel ricalibrare il rapporto uomo-natura.
Il nomadismo porta ad una particolare mescolanza che, viaggiando da soli, consiste nell’aprirsi agli altri. Non è tanto una propensione romantico-altruistica quanto più la necessità di reperire informazioni in poco tempo su un luogo che non si conosce (si vuole scoprirne le particolarità, si vuole evitarne i potenziali problemi) e il passaparola o l’esperienza diretta di qualcuno sono gli strumenti più immediati ed efficaci, specie se ci si trova in un ostello. Ci si affida agli altri per migliorare la propria esperienza, per essere più al sicuro.
“[...] nonostante tutti i pericoli – è sempre meglio ciò che è in movimento rispetto a ciò che sta fermo; che il cambiamento è sempre più nobile della stabilità.”
Olga Tokarczuk - I Vagabondi
Nel suo romanzo “I vagabondi” il premio Nobel per la letteratura 2018 Olga Tokarczuk narra dei Bieguni, popolazione nomade slava che basa la propria sopravvivenza sull’altrui gentilezza. É inevitabilmente così quando si è “soli” lontani da casa. Ci si affida agli altri.
Negli ostelli lungo le rotte dei viaggiatori si crea un annullamento delle provenienze sociali, culturali, geografiche. Tutti stanno con tutti. Mi sono sbronzato a Fernet Cola con un gruppo di giovani argentini che mi hanno accolto come uno di loro nonostante il mio spagnolo zoppicante, ho ascoltato la storia avventurosa e dolorosa di una donna esiliata dallo Zimbawe – dov’è nata e cresciuta – da Mugabe perché discendente inglese, ho incontrato esuli venezuelani in una sorta di diaspora mesoamericana ma ho anche conosciuto persone che vivevano viaggiando senza avere denaro, barattando ospitalità e cibo in cambio di lavori di vario tipo e contando sulla generosità degli altri. Insomma, l’umanità pulsa ancora lungo diverse rotte, basta imboccarne una e lasciarsi contaminare e arricchire dalla diversità. In parte è necessario perdersi.
“[...] ciò che non si muove è soggetto alla disintegrazione, alla degenerazione e a ridursi in cenere, mentre ciò che si muove potrebbe addirittura durare per sempre.”
Olga Tokarczuk - I Vagabondi
Ciò che un’esperienza di viaggio simile trasmette è il senso di sentirsi nomadi su questa terra. Capire che la bellezza va cercata e vissuta lì dov’è, anziché tentare di ri-crearla artificialmente per abbellire un luogo pur di non lasciarlo. È Maometto ad andare dalla montagna, non il contrario. Essere stanziali spinge verso l’idea che la bellezza e lo stupore del mondo debbano venire da noi, anziché il contrario. Spostare una montagna e ben più complesso e dispendioso (soprattutto in termini ecologici) che spostarci noi.
Il vivere nomade significa adattarsi al mondo, affrontarne le asprezze e ridimensionare sé stessi e quelli che si crede essere i propri bisogni.Un celebre adagio nomade invita a non possedere più di quanto si possa trasportare a dorso di mulo. L’accumulo è impraticabile, si ottimizza lo stretto indispensabile. Il ridurre all’essenziale produce un ulteriore effetto: si è spinti a prediligere oggetti durevoli. Ci si educa a far durare il più a lungo possibile ciò che si ha, consapevoli che in certi luoghi sia difficile se non impossibile sostituirlo con qualcosa di nuovo.
Viaggiare ci ridimensiona, appunto. A pensarsi padroni del mondo si corre il rischio di ignorarne gli avvertimenti. Di pensare, ad esempio, che una pandemia sia un fatto indipendente e fine a sé stesso, e non l’avvertimento frutto di una catena di eventi in cui abbiamo il nostro peso e le nostre responsabilità.
Spostarsi lungo il pianeta significa esporsi, significa costringersi a prestare maggiore attenzione, a dipendere maggiormente dai suoi fragili equilibri, a comprendere che rispettarli non è un vezzo ma l’unico modo di essere davvero vivi. Un’esperienza nomadica è l’esperienza di un viaggio lento, l’antitesi del turismo mordi e fuggi che è assimilabile al fast fashion sia per l’approccio che per l’impatto ambientale.
Un altro aneddoto biografico. Nel mese di giugno ho raggiunto la mia ragazza ad Ericeira in Portogallo, vivendo per una ventina di giorni nel co-living in cui si era trasferita per lavorare in remoto e surfare. Questa casa ospitava una decina di persone di diverse provenienze, accomunate dall’essere “nomadi digitali”. Per oltre due settimane ho osservato il loro approccio a questo modo di vivere.
In primis, nonostante uno zoccolo duro di loro vivesse insieme da circa un anno girovagando tra diversi co-living in Portogallo, mi hanno accolto come facessi parte del gruppo.Poi, ho osservato la totale naturalezza con cui si prendevano cura di un luogo non loro, consapevoli che lo avrebbero lasciato di lì a non molto. Ecco un’altra lezione del nomadismo: avere cura delle cose anche nella consapevolezza del doverle abbandonare. Far coincidere al senso della fine non un’individualistica dissipazione di risorse per il proprio piacere ma un’altruistica ed ecologica volontà a lasciare un posto migliore di come lo si è trovato.
Immaginate se questo fosse un istinto connaturato all’intera umanità, capace di contrastare la spinta vorace dell’avidità e del possesso, con l’accentramento e la distruzione di risorse. Accorgersi che si fa parte di qualcosa di più ampio che il proprio orticello.
Capo Seattle, nativo americano, nel 1852 pronunciò un discorso in risposta alla richiesta del Governo degli Stati Uniti di comprare le terre su cui viveva il suo popolo. La sua risposta fu: “La Terra su cui viviamo non l’abbiamo ereditata dai nostri padri, l’abbiamo presa in prestito dai nostri figli”.
Il nomadismo ci ricorda che siamo solo di passaggio https://www.youtube.com/watch?v=oZ6GyFa- AQk come cantava Battiato. Ecco perché sono profondamente convinto che mettersi in viaggio dovrebbe essere parte dell’educazione di ognuno. Il fatto che per viaggiare serva molto denaro è smentito da chiunque abbia davvero viaggiato. Perdersi nel mondo come via per comprendere sé stessi, abbandonare la fissità di un punto di vista e aprirsi al molteplice, alle contraddizioni. Seguire una via, qualunque essa sia, ovunque porti.
“Io non sono di qui. Non appartengo a questa terra dove sono nato; e nella vita si impara, impara chi vuole imparare, che nessuno appartiene alla terra dov’è nato, dove l’hanno messo al mondo. Che nessuno è di nessun posto. Alcuni cercano di mantenere l’illusione e si costruiscono nostalgie, sensi di possesso, inni e bandiere. Tutti apparteniamo ai luoghi dove non siamo stati prima. Se esiste nostalgia, è per le cose che non abbiamo mai visto, per le donne con cui non abbiamo mai dormito, e per gli amici che non abbiamo avuto, per i libri non letti, per i cibi nella pentola ancora non assaggiati.
Questa è la vera e unica nostalgia.”
Paco Ignacio Taibo II – Ombre nell’Ombra
Articolo pubblicato il 21 luglio 2021 su www.wradliving.com