Dispacci dall’Indocina #7 Antipasto filippino
- Alvise Bortolato
- Mar 21, 2024
- 10 min read

18 gennaio 2023
Quando si dice che la memoria gioca brutti scherzi, senza saperlo andiamo al cuore della lezione che Rushdie ha appreso una volta per tutte all’inizio della sua carriera letteraria. Nabokov, in fondo riecheggiando a suo modo il precetto antico per cui Mnemosyne è la madre di tutte le arti, si domandava: “che cos’è la memoria se non una forma dell’immaginazione?”. Ogni evento ricordato, ricostruito dal ricordo, si trasforma in un evento immaginato. La memoria ci gioca brutti scherzi nella misura in cui essa è inestricabilmente legata al gioco dell’immaginazione. Ed è proprio grazie agli scherzi che l’immaginazione gioca alla memoria che ogni ricordo o evento vissuto può essere narrato. Di più. L’immaginazione serve ad arricchire ciò che abbiamo vissuto, non a eluderlo o a evaderne. Ciò che si è soliti chiamare meraviglioso è qualcosa di profondamente incastonato nella realtà, tanto che spesso solo attraverso una metafora si riesce con un colpo di piccone ben assestato sulla dura roccia delle abitudini linguistiche a cogliere immagini più reali della realtà, più vere della verità.
Rushdie: il romanzo senza morale – Massimo Rizzante
26 dicembre 2022 | Manila, Puerto Galera
Quella che è, con ogni probabilità, la città più densamente popolata al mondo offre un assaggio della sua sovrabbondanza già dall’aeroporto. Oltre la porta scorrevole degli arrivi si staglia un muro di gente assiepata, un’onda immobile che incombe senza mai rompersi. Chi si sbraccia, chi sventola cartelli con nomi, chi se ne sta seduto sul pavimento chino sullo smartphone, chi in ghingheri con mazzi di fiori o palloncini o peluche o porzioni di cibo. Per un paese di emigranti, il ritorno a casa merita un’accoglienza adeguata. La fine – o almeno la sospensione – della sofferenza della separazione, della distanza, del sacrificio di mancarsi per tentare un futuro migliore che spesso si rivela una quotidiana lotta alla sopravvivenza in un paese lontano e straniero.
Ci vuole mezz’ora perché un autista Grab accetti di raccattarci. Uscendo dall’aeroporto la sensazione di formicaio si amplifica, anche se sono già passate le 22. Un macrorganismo pervade la città. Le persone sono ovunque, emergono per qualche istante nella luce fioca dei lampioni e delle insegne o rischiarate dai fasci dei fanali. Oltre il vetro dei finestrini un brulicare di mezzi di trasporto di ogni sorta, negozi che spargono gelide luci al neon, ombre.
È quasi mezzanotte quando giungiamo all’indirizzo del nostro alloggio, scelto per la vicinanza alla stazione da cui ripartiremo domattina. Varchiamo la hall di un fetido motel con un nome diverso da quello della prenotazione. La stanza minuscola è priva di finestre, manca la carta igienica – ragion per cui si viaggia sempre con la propria scorta personale – e c’è un unico asciugamano. Protestare con la receptionist che parla a malapena l’inglese non sortisce alcun effetto e usciamo alla ricerca del primo posto che prepari del cibo. Una città-accampamento fatta di tende e baracche si stende come una ragnatela lungo ogni marciapiede. Chi dorme su qualsiasi cosa, chi cucina su fornelli da campo, chi è impegnato in chissà che attività. Ogni palazzo ha guardie armate all’ingresso. Dopo qualche centinaio di metri desistiamo, andare a letto senza cena non ci sembra la peggiore delle opzioni. Ci buttiamo a letto senza nemmeno spogliarci.
27, 28, 29 dicembre 2022 | Puerto Galera
Finora, quando ci siamo svegliati affamati, i peggiori baracchini del Sud Est Asiatico ci hanno sempre offerto rapido e delizioso conforto. È bastato spostarsi in un paese dove la “cultura” USA ha avuto più tempo e forza per attecchire ed eccoci a vagare tra un fast-food e l’altro. Pare che la dieta si basi sulla carne, spesso di maiale, quasi sempre fritta. La cosa più sana che troviamo è del banana bread. Le guardie armate della sera prima non sono svanite col sorgere del sole e questo dev’essere tra i lavori più diffusi in città a occhio e croce. Manila è anche il primo luogo dove i bambini, non appena vedono un occidentale, allungano la mano per chiedere l’elemosina.
Il nostro bus diretto a sud sarebbe dovuto partire alle 9:30, ma le condizioni del mare hanno fatto ritardare il ferry boat con cui lasceremo Luzon per Puerto Galera, sull’isola di Mindoro. Partiamo quasi due ore dopo e la prima sosta è in una stazione di servizio dove l’autista ci consiglia di rifornirci di cibo. Lascio vagare lo sguardo sulla piazzola assolata, un ferro di cavallo che oltre alle pompe di rifornimento ospita un McDonald’s, un Dunkin’ Donugts, un fast food locale che propone pollo fritto e un altro che vende una sorta di siopao, pagnotte bianche cotte al vapore e farcite in vario modo che derivano dai baozi cinesi. Mangiare junk food in un paese con una biodiversità del genere? L’unica cosa che riusciamo a reperire senza carne sono dei bao con crema di fagioli dolci e formaggio. Fanno comunque schifo.

Il traghetto attracca a Puerto Galera che è già buio, con oltre quattro ore di ritardo. Sbarchiamo in uno sciame di motorini e tricicli, tra lo scoppiettio dei motori e le luci al neon. Il Villa de Pico è arroccato sulla dorsale del promontorio a nord del centro, e il vento spazza le fronde delle palme. Il corpo centrale che ospita il ristorante e una sorta di reception è una grande struttura di legno lucidissimo che sovrasta la baia, con spessi tendoni di plastica che vengono abbassati per proteggere dalle raffiche di vento. Ci piazziamo in una stanza spartana, interamente costruita con tavole di legno da cui filtrano innumerevoli spifferi. Per la prima volta dall’inizio del viaggio, col solo lenzuolo la notte si soffre un po’ il fresco portato dalla brezza.
La colazione inclusa nel prezzo comprende solo un pancake con niente e un caffè americano. La tazza di cereali che chiede Nicolò - una sorta di porridge senza arte né parte - viene fatta pagare 150 pesos (quasi 3€). La policy dei prezzi sembra altamente arbitraria. L’indaffarata proprietaria, trincerata dietro al bancone e a sorrisi indecifrabili, trasmette l’esatta sensazione di volersi intascare quanti più soldi possibile.
Nel cielo si rincorrono nuvole grigie che scaricano a intermittenza scrosci di pioggia, ma gli sprazzi di sole ci rendono speranzosi.
Noleggiato un motorino ci lanciamo lungo la costa per raggiungere la rinomata White Beach. Si rivela una delusione: un obbrobrio edilizio spalmato direttamente sulla spiaggia affollato di turisti occidentali. Tentiamo le spiagge seguenti con lo stesso demoralizzante risultato. Speculazione deturpante su misura di un certo turismo occidentale alla ricerca di luoghi privati della propria identità per offrire una scimmiottatura dello stesso comfort – fatto di cibo “continentale”, hotel di catena, birre importate e forme di intrattenimento – che hanno a casa propria, solo che a un prezzo inferiore. Scoraggiati dal litorale ripieghiamo sulla ricerca di un pasto vagamente sano. Finiamo in uno strano ristorante giapponese, con tanto di arredo tradizionale, incistato in un insediamento di baracche. Siamo gli unici avventori e la padrona di casa cucina dietro un separè in carta di riso. Evitare i fast food – che a quanto pare rappresentano l’orizzonte gastronomico assoluto per la popolazione locale – significa finire in ristoranti pensati per i turisti, con prezzi annessi. Lo street food, con la sua rassicurante presenza che c’ha accompagnato attraverso Thailandia e Malesia, sembra essersi volatilizzato da queste parti e quel poco che c’è, offre una scelta che verte unicamente sulla carne.
Il clima è incerto, piove spesso e raramente il cielo è terso. Il logorio pluviale che si protrae da Kota Kinabalu inizia a suscitare i primi malumori e le prime insofferenze. Ragioniamo di tornarcene a Manila anzitempo. Le giornate si intorpidiscono nell’uggia e la sensazione occidentale di “sprecare tempo” torna a braccarci ogni volta che ci affacciamo su baie e spiagge, intuendo la bellezza che il sole accenderebbe.
Mi rifiuto di accettare che non esista street-food interessante qui a Puerto Galera e convinco Nicolò a seguirmi nelle peggiori bettole lungo la strada principale. I risultati non sono entusiasmanti ma rimediamo una sorta di kebab con zucchine e pomodori, un pares (zuppa) con manzo e uova di quaglia. Poco dopo ordiniamo tapsilog e chicksilog, diverse declinazioni – rispettivamente con carne di manzo e di pollo – del silog, un piatto che contiene carne fritta, uova fritte, riso fritto e salsa.
A cena tentiamo, anche perché nel frattempo abbiamo restituito lo scooter e camminare di notte fino al centro paese è un tantino rischioso, un ristorante a poche decine di metri dal Pico de Gallo. Siamo gli unici avventori. Il cuoco ci guarda sorpeso, scuotendosi controvoglia dalla sua indolenza da smartphone e divano. Non parla inglese e scuote la testa quando indichiamo la gran parte dei piatti sul menù, che deduciamo non essere disponibili. Mentre ordiniamo ci accorgiamo dell’odore di putrefazione che proviene dalla cucina e dell’agitazione del cuoco e del suo assistente (presumibilmente il figlio) mentre tentennano telefonando a qualcuno e strillandosi l’un l’altro. A salvarli l’apparizione di una donna che scarica dal motorino due buste della spesa. Evidentemente per la nostra cena difettavano giusto di qualche ingrediente. Nel frattempo, i gatti prendono confidenza e iniziano a saltare sul tavolo, le mosche ronzano furiose. Lasciamo quasi tutto per evitare l’intossicazione.
Anche se Nicolò preferirebbe tornare in città, io preferisco il verde lucido di pioggia – anche se con spiagge interdette – al marasma urbano di Manila. Alla fine, estendiamo la prenotazione al Pico de Gallo per altre due notti. La proprietaria sembra soddisfatta alla notizia.
30, 31 dicembre 2022 | Puerto Galera
Eppure, basta una mattinata in cui il vento spazza le nuvole consegnando un cielo terso al dominio del sole per riscoprire il fascino lussureggiante dei tropici. La luce accede i colori e ci incamminiamo lungo la strada che si addentra nella penisola di Sabang squarciando la giungla. Sembra di tornare a respirare, la sensazione che il sole sulla pelle infonda all’umore nuova linfa. A Sebang la costa è assediata da Dive Resort più o meno fatiscenti, dalle architetture improbabili contornate da agglomerati di baracche. Una folla invade le strade, e a essere occidentali si attirano parecchie attenzioni indesiderate. Mentre rollo una sigaretta un ragazzo mi chiede cosa ci sia dentro. Solo tabacco, rispondo. Annuisce prima di mimare una pistola con le dita e dire: “Here, Marijuana bang bang”. Comprensibile considerata la guerra alla droga condotta dall’ex presidente Duterte dal 2016 al 2020 e costata la vita a 6600 persone stando alle autorità filippine. Altre fonti stimano una cifra almeno tripla. Oggi è sotto indagine delle Nazioni Unite per crimini contro l’umanità.

L’ultimo giorno dell’anno è ancora avvolto nel grigiore del sole nascosto dietro le nuvole. Il vento spazza la baia increspando il mare e flettendo le palme. Domani ripartiremo. Siamo venuti a Puerto Galera per goderci il mare – che non frequentiamo dalla Thailandia oramai – ma il maltempo ha vanificato lo sforzo.
Non so se sia il clima festoso ma la proprietaria del Resort pare essersi addolcita. La curva dei prezzi di caffè e birre – il nostro metro di misura – è in discesa libera tanto da farci credere che l’aver esteso il soggiorno c’abbia fatto entrare nelle sue grazie. Ci annuncia che stasera ci sarà una grande cena e con un sorriso ci invita a partecipare. Dopo qualche ora, facciamo parte di una processione caotica che si snoda tra i tavoli imbastiti di decine di pietanze diverse, in una mescolanza umana che comprende la famiglia e gli amici della proprietaria e alcuni degli ospiti del Pico. Ci abbuffiamo e ingolliamo San Miguel finchè scocca la mezzanotte e sull’oscurità della baia si riflettono sparuti fuochi d’artificio mentre una cacofonia di clacson si sparge dalle strade che innervano Puerto Galera. Vinti dal cibo e dalle birre ci ritiriamo in camera e crolliamo col sibilo del vento tra gli spifferi. Le prime ore del 2023 si concludono così.
1, 2, 3 gennaio 2023 |Manila
Inizio l’anno con la consapevolezza che la dieta filippina sia viatico per una morte precoce. Nel primo giorno dell’anno, ironia della sorte, il sole splende alto nel cielo. Non allenta la sua morsa nemmeno quando, con inaspettata puntualità, salpiamo da Puerto Galera a bordo del ferry che in meno di un’ora e mezza attracca a Batangas. Percorriamo a ritroso la strada che porta verso la capitale.
In tutto ciò, a Puerto Galera non è stato possibile acquistare sim, quindi siamo privi di connessione quando il bus ci scarica a pochi metri dal sudicio motel che ci ha accolti al nostro arrivo. È domenica e il sole splende sulla capitale semi-deserta. Sfruttiamo il wi-fi a cui non hanno cambiato la password e ci incamminiamo alla ricerca dello studio che abbiamo prenotato su Airbnb, stavolta dopo esserci accertati che il quartiere sia un po’ più accogliente.
Makati si presenta in maniera completamente diversa dalla Manila che abbiamo visto finora. Palazzi moderni e altissimi, ampie strade separate da aiuole ben curate, negozi alla moda. Eppure, trovare il nostro Airbnb si rivela un’impresa. Chiediamo di attaccarci al wi-fi di un paio di palazzi e ci viene risposto che ne sono privi. Tentiamo in due fast food con lo stesso esito. Entriamo da McDonald dove ci garantiscono esserci una rete utilizzabile, ma neppure questa funziona. Senza connessione non possiamo ricevere le istruzioni da Airbnb e trovare l’indirizzo giusto.
Nicolò, esasperato, si avventura a piedi alla ricerca mentre io sorveglio i bagagli. Torna con l’indirizzo di uno dei palazzi in cui c’eravamo fermati e, al secondo tentativo, la receptionist ci indica l’edificio giusto dall’altro lato della strada. Intravediamo la luce in fondo al tunnel. Comunque ci vuole un’ora perché la nostra host ci invii i file necessari e i codici per prendere possesso dell’appartamento, operazione che compiamo grazie alla gentilezza delle guardie all’ingresso che ci lasciano usare il loro hotspot. Inutile dire che, una volta saliti al 42esimo piano, il wi-fi non funziona. In compenso le finestre si affacciano su un ampio cimitero, dove a quanto pare la gente abita tra le tombe.
Makati è un posto difficile da inquadrare. L’indomani gironzoliamo per le sue strade semi-deserte per via delle festività. A quanto pare i filippini lasciano Manila in massa per far ritorno alle isole da cui provengono. Il quartiere assomiglia più a una città americana che alle capitali asiatiche viste finora. I marciapiedi sono costantemente spazzati, il verde mantenuto alla perfezione, le facciate dei palazzi lucide come fossero appena stati eretti, gli expat che camminano in tenuta da jogging con le cuffie nelle orecchie.
Dopo cena mi installo nella piazzetta sotto ai condomini (Air Residences) che ci ospitano. È la mia televisione privilegiata. Osservo il via vai interrogandomi su chi siano queste persone, immaginando le loro provenienze, le loro storie, i loro pensieri. Giovani coppie passeggiano con cani appena usciti dalla toelettatura, lucenti e profumati, e le uniche sigarette che si vedono sono elettroniche. I filippini sono così rari che mi domando se ve ne siano che risiedono a Makati. Osservando il profilo dei palazzi stagliarsi contro la volta celeste mi chiedo quanto ci sia dell’approccio degli antichi stiliti in questa tendenza dei ricchi di arroccarsi in grattacieli per sfuggire alla miseria delle strade. “Se non posso sfuggire al mondo in orizzontale, sfuggirò in verticale” dichiarò San Simeone, asceta cristiano siro che visse per 37 anni seduto in cima ad una colonna, nella zona nord di quella che è oggi la Siria.

Nel terzo giorno dell’anno nuovo ci svegliamo con la pioggia che sferza le finestre nel grigiore che ammanta la città. Prendiamo un Grab per raggiungere il distretto finanziario, L’altra “faccia sicura e rispettabile” di Manila che si rivela l’ennesima sbiadita copia dell’occidente, priva di qualsivoglia forma di autenticità.
Una lettera spedita a nonna da Kuala Lumpur il 15 dicembre è giunta a Saccolongo oggi.
Mentre attendo l’arrivo di Alice in aeroporto, rifletto sul fatto di essermi in un certo modo acclimatato alle Filippine. Quelle che inizialmente apparivano come asprezze capaci di suscitare fastidio, ora sono diventate il pattern, la configurazione base. L’attesa dura un paio d’ore, tra il ritardo del volo e la lentezza dei processi interni all’aeroporto, in cui gironzolo osservando la gente accalcata agli arrivi.
È così bello poter stringere dopo due mesi la persona che ami, in un nuovo angolo di mondo. È quasi l’una di notte quando riusciamo a tornare a Makati e a coricarci.