Dispacci dall'Indocina - #4 Malay Peninsula parte prima
- Alvise Bortolato
- Mar 18, 2024
- 6 min read

23 dicembre 2022
Luoghi, persone, sapori. Non vanno fatti paragoni, mai. Tantomeno in viaggio. Conducono solo ad aspettative deluse, insofferenze accecanti, nostalgie inutili. Ogni luogo è unico. Ogni circostanza va accettata con gratitudine per quello che porta in dote. Restare lievi sul proprio istinto a giudicare, i sensi spalancati a nutrire la curiosità, abbandonarsi allo stupore. Qualcosa arriva sempre.
10 dicembre 2023 | Langkawi
Nessun alloggio prenotato, senza contanti in valuta locale, privi connessione di sorta. Il nostro approdo malese, a Langkawi, avviene in un piccolo porto sul mare delle Andamane. Seppur a poca distanza dalle isole thailandesi, appare evidente fin da subito si tratti di tutt’altro approccio. Senza indugi ci timbrano il passaporto ammettendoci per 90 giorni e mezz’ora dopo il taxi ci scarica lungo un viale che percorriamo a piedi, a caccia di una sim e di cibo.
Una Ferrari nuova sfila borbottando roca, a bordo un giovane e una ragazza velata. Nicolò e io ci guardiamo confusi: dove siamo finiti?
Lungo il vialone principale, una sorta di lungomare costeggiato da palazzoni, si inanellano negozi e locali di marchi occidentali – Mc Donalds, KFC, Starbucks, H&M –. C’è pure una Mafioso Steakhouse, il cui payoff recita “When you’re here, you’re family!” A completare il quadro, Langkawi gode di una tassazione particolare e i duty free abbondano, luccicanti e tutti uguali. Forse per una qualche distorsione percettiva la gente mi appare devastata, affannata, storpia, appesantita, stanca. Insomma, percepisco una certa sofferenza negli individui, mentre si trascinano per il lungomare, carichi di borse dello shopping o dei fast food o incollati allo schermo degli smartphone, come se questo consumare incessantemente – merce, cibo, stimoli percettivi – stesse allargando una falla interiore che li prosciuga.
Ricchi – più probabilmente arricchiti – malesi girano con macchine di lusso mentre frotte di turisti scaricati da pullman refrigerati fanno le vasche avanti e indietro. Indossano tutti t-shirt dello stesso colore per permettere alle guide di riconoscerli. Sembrano greggi marchiate. L’impatto con la Malesia è abbastanza aspro, dopo la dolcezza thailandese.
A ciò si aggiunge il maltempo. Questo costante spostarsi a sud è accompagnato da un sole sempre più raro e da piogge intermittenti. Capiamo che quest’isola non è posto per noi e ci fermiamo a un ufficio turistico per chiedere quando parta la prima barca per la terraferma. Sorpresa: i collegamenti marittimi sono stati tutti soppressi – non sanno spiegarci la ragione – e l’unico modo per lasciare l’isola è attraverso il volo più insulso che abbia mai preso, Langkawi – George Town.
11 - 12 dicembre 2022 | Langkawi, George Town, Taiping, Ipoh, Kuala Lumpur
Saltiamo su un Grab che fuori è buio pesto e noi siamo impazienti di lasciare l’isola. Nelle successive 48 ore, senza averlo previsto, copriremo 350 km su vari mezzi fino a raggiungere Kuala Lumpur. È come se questo primo amaro assaggio malese ci avesse messo fretta dopo quasi un mese di indolenza siamese, come fossimo palle da biliardo nell’accelerazione imprevedibile impressa dal colpo d’apertura.
20 minuti dopo il decollo, il carrello impatta la pista del Penang International Airport. La nostra meta, George Town, sorge sull’isola di Penang (che è anche il nome dello stato), nello stretto di Malacca, connessa alla terraferma da due ponti. Fu il primo insediamento britannico nel sud est asiatico, fondata come porto franco nel 1786 dalla Compagnia delle Indie Orientali. L’intera isola di Penang fu barattata col Sultano di Kedah, in cambio della protezione militare britannica. Fu a lungo un centro nevralgico dei commerci britannici in questa parte di mondo. Il suo declino coincise con l’ascesa di Singapore mentre il suo rinascimento iniziò nel 2008, quando l’UNESCO la rese World Heritage Site.
Il centro storico è un affascinante miscuglio di colonialismo britannico, influenze cinesi, islamiche e indiane. Si respira l’intreccio di storie e vicende umane. Nei templi taoisti dominano il rosso e l’oro, l’intarsio su pietra scura di dragoni e scene mitologiche.
Nei bei palazzi coloniali restaurati con gusto sono installati caffè, ristoranti e botique hotel vagamente hipster. Tuttavia, le facciate conservano una certa decadenza che ne alimenta il fascino. Chiacchierando con Bernard, proprietario di un bel caffè, scopriamo che è di Ipoh, ipotetica meta di giornata. Ci propone di cenare assieme per poi mostrarci la sua città, di cui è evidentemente orgoglioso. Il destino, incarnato nel sistema ferroviario e dei bus malese, sceglierà diversamente.
Da un antiquario compro un osso di pesce cesellato. Ha una piccola rottura ma la fattura è delicata e raffinata. Chiedo il prezzo, offro la metà e il commerciante accetta senza battere ciglio. Strano modo di contrattare il suo. O forse la metà era già ben oltre le sue aspettative. O forse l’ha maledetto, dato che poche ore dopo fuoriesce dalla cappelliera del treno per frantumarsi al suolo.

Little India sprigiona il suo spirito caotico e sovrabbondante. Mangiamo in un ristorante indiano in cui siamo gli unici a richiedere e usare le posate tra le occhiate divertite degli avventori. Non sapremo mai cosa ci fosse nei nostri piatti.
Lasciamo l’isola su un traghetto che, curiosamente, è gratuito solo per andarsene, mentre per raggiungere George Town si paga. Alla stazione dei treni di Butterworth prendiamo un treno a caso verso sud, comprando due biglietti per Taiping. In realtà non sappiamo bene dove andare, stiamo solo cercando di evitare posti turistici e costosi. Un esercizio che finora sembra molto complesso in Malesia.
Scesi alla stazione a Taiping diluvia con ferocia. Non ci sembra il caso di fermarci così chiediamo se c’è un treno che prosegue a sud. A quanto pare non ce ne sono né oggi né domani. In direzione Kuala Lumpur risulta tutto esaurito a causa di una festa. In questo paese di contaminazioni etnico, religiose e culturali, ci spiega il proprietario di un hotel, celebrano qualsiasi occasione. L’importante, dice, è festeggiare tutti assieme. Suggestivo questo modello di integrazione fondato sulla festa.
Giunti in taxi alla fatiscente stazione dei bus dall’altro capo della città, riusciamo a acquistare gli ultimi due posti sul bus che parte alle 19:30 per Ipoh. Almeno è un po’ più a sud. La pioggia non ci abbandona e scende incessante. Dopo un viaggio di 3 ore – il doppio del previsto – arriviamo in una zona di Ipoh il cui centro nevralgico è costituito da un gigantesco mall e da un quartiere residenziale semi-abbandonato che gli è stato costruito attorno premeditatamente. Nessun occidentale e la conturbante sensazione di risultare esotici negli sguardi dei bambini carichi di stupore.
La mattina andiamo a esplorare il centro commerciale. Mi chiedo come attecchiscano e proliferino ovunque nel mondo, come un morbo che dagli USA si è propagato in tutti quei paesi che subiscono il fascino del modello economico dell’infinita crescita dei consumi, su un’occidentalizzazione vista spesso come l’unico orizzonte desiderabile di progresso. Posti simili incarnano lo spirito del tempo, le influenze culturali, i desideri e le aspirazioni. Sono più rivelatori di qualsiasi museo o mostra d’arte.
Suscita la mia ammirazione un’inaspettata attenzione alla raccolta differenziata, e alla riduzione della plastica monouso. La Malesia mi spinge a riflettere di più sul posto da cui provengo, su come un viaggio sia anche adattarsi a certe asprezze, ricordandosi da dove si viene e ciò che si ha. E quanto poco serva a vivere nel mondo come nomadi.

Durante il viaggio in bus verso Kuala Lumpur chiacchiero con un ragazzo malese che sta tornado a casa. Mi chiede curioso di un sacco di cose su Italia e Europa. Vorrebbe venirci, ma è preoccupato di quanto possa costare. Come posso dirgli che oramai anche un pranzo in trattoria costa quanto mezza dozzina di pasti da queste parti? O che una camera d’albergo decente costa almeno 5 volte tanto di quel che costa qui?
Tra il diluvio incessante, il traffico autostradale, impieghiamo quasi 5 ore per coprire 200 km mentre l’aria condizionata del bus punta ai 16º. C’è un vecchio a pochi sedili dal mio, il viso cotto dal sole e la camicia dai motivi tradizionali. Mi sorride, gettando sguardi incuriositi. Resto ipnotizzato dal suo viso inspessito dai tropici, pieno di dignità, durezza e meraviglia infantile allo stesso tempo.
L’iniziale percezione di “asprezza” malese si sta ridimensionando. É nelle sfaccettature della sua unicità che la diversità potrà rivelarmi qualcosa. Se non accade sarà solo colpa del mio cedere alle mie rigidità, ai miei preconcetti, alle mie aspettative.
Kuala Lumpur emerge con la verticalità dei propri palazzi sulla vegetazione lussureggiante avvolta da banchi di nuvole e foschia. Finiamo – per un prezzo abbastanza ridicolo – in una sorta di residence all’interno di un grattacielo nuovissimo nel centro delle città. La nostra stanza, un mini appartamento completo di tutto, è al 30esimo piano, mentre all’ultimo piano, il 48esimo, c’è la piscina con la vista sulle celebri Petronas Tower. Dopo ostelli e guest-house con il lusso di qualche bungalow, un po’ di comfort è un vizio che è piacevole concedersi.

Eppure, ho sempre più la certezza che gran parte di ciò che la vita può offrire sia al di là dell’abitudine alla comodità, che alla lunga rischia di diventare una dipendenza e, quindi, un limite. A due giorni di distanza dalla piccola isola tropicale di Koh Lipe, il passaggio a un altro mondo è definitivamente sancito.