Dispacci dall'Indocina - #3 Da un mare all'altro
- Alvise Bortolato
- Mar 14, 2024
- 12 min read

30 novembre 2022
Viaggiare è un atto di riscrittura di sé stessi. Nell’incedere nomadico agiscono forze che plasmano l’identità in maniera profonda, anche se non sempre evidente. Spesso ce ne si rende conto solo in seguito, e quasi mai se ne afferra la portata.
Abbiamo percorso poco più di 500 km, principalmente su rotaia. Su di un muro una volta lessi “Il tempo non esiste, esistono solo gli orologi”. È nella percezione individuale, nell’attenzione al succedersi di singoli eventi percepiti in un flusso, che conferiamo significato e valore al nostro essere su questa terra. Le nostre menti, fisiologicamente attratte dalle novità, quando le releghiamo a forme di routine distratte lasciano che il tempo scorra via come fluido – piatto, inerme, impalpabile, indistinto –. Eppure, nella realtà nulla è mai identico. A irrorare la curiosità di attenzione, anche i fenomeni più apparentemente ripetitivi brillano d’una luce di varietà e unicità.
24 novembre 2022 | Koh Tao
Nell’entusiasmo di raggiungere, finalmente, un’isola tropicale e nelle attese dettate dal particolare concetto di puntualità locale, finisco per abbassare la guardia. A proposito di attenzione. Il risultato è che arrivati al pontile del remoto imbarcadero di Chumphon, mi accorgo di aver lasciato i biglietti nella hall della guesthouse. Fortunatamente, ci imbarcano lo stesso.
Ci ritroviamo stipati, infagottati in sgargianti e sbrindellati giubbotti di salvataggio, nel ventre rovente di una speedboat che ci porta a Koh Tao in poco più di un’ora, scheggia rombante sul mare piatto, sotto un cielo di piombo fuso che sembra non aspettare altro che caderci in testa.
Il sole tropicale è al suo zenith quando ci incamminiamo per esplorare il versante meridionale dell’isola. L’impalpabile scudisciata di un gatto a nove code che attraversa milioni di chilometri per farci sudare come se fossimo spugne strizzate. I saliscendi tagliano il fiato ma la vista che si apre sulle baie è l’esatto stereotipo dell’isola tropicale. Lo smeraldo del collier d’un’imperatrice d’Asia precipitato in un Golfo del Siam di zaffiri fusi. Ci confrontiamo ben presto con quella che forse è l’unica sgradevolezza di Koh Tao: per raggiungere la gran parte delle spiagge o dei punti panoramici viene richiesto un dazio variabile e arbitrariamente deciso da qualcuno acquattato in un baracchino poco prima dell’accesso.
25, 26, 27 novembre 2022 | Koh Tao
È una particolare sensazione di libertà quella di macinare chilometri su un motorino. Qualcosa che credo abbia a che fare con la giovinezza, quando i primi mezzi di trasporto concedono un’indipendenza che si brama intensamente. Scorrazzare su due ruote circondanti da un verdeggiare lussureggiante, con l’aria calda sulla pelle mi riporta a quella spensieratezza.
Assaporo il contrasto tra le città cementificate che ci siamo lasciati alle spalle, coi cavi che corrono ovunque come rampicanti, e la natura strabordante, viva, conquistatrice di cielo e terra con buona pace del presunto ordine umano.
Qual è il primo istinto quando si ha a disposizione un mezzo di trasporto adatto – almeno in via teorica – a coprire le distanze ridotte di un’isola? Per me, quello di puntare alla destinazione più remota possibile. In questo caso, la punta più settentrionale dell’isola che risponde all’esotico nome di Mango Bay. Dista circa 7 km dal noleggio.
La parte finale del percorso si rivela una sorta di rally su un sentiero stretto, dissestato, fangoso, attraversato da ruscelli e cosparso di buche. L’Honda Click 125 con 35 000 km sul groppone, caricato dei nostri circa 140 kg in due, crolla dopo una salita troppo ripida. Rimaniamo appiedati nella giungla, fortunatamente in corrispondenza di uno strano agglomerato di baracche dove un’arzilla vecchietta vende frullati di frutta e marijuana da lei coltivata. Ci ospita al suo tavolo mentre nugoli di zanzare cercano di dissanguarci.

Dopo un po’ passano tre ragazzi – un austriaco, uno spagnolo e un argentino – che tentano di far ripartire il nostro mezzo senza successo. La diagnosi è che abbiamo fuso il motore, sbiellandolo irrimediabilmente. Non ci resta che accettare la proposta del noleggiatore che al telefono, dopo aver sottolineato che se avesse saputo della nostra meta non ci avrebbe affittato il Click, chiede 1000 bath per venire a recuperarci con un pick-up e due aiutanti.
Seduti sui sedili posteriori del pick-up, mentre il noleggiatore e un aiutante tengono fermo come possono il motorino che abbiamo issato sul cassone e l’autista cerca di non farci finire giù per una scarpata, realizziamo, colpevolmente, perché il servizio costa quel che costa.
La sera osserviamo i temporali a sud, coi lampi a squarciare l’oscurità, sotto un cielo trapuntato di stelle su cui si stagliano le sagome delle palme mosse dal vento.
Le previsioni sembrano non azzeccarci mai – i locali, alle domande sul meteo rispondono sempre “unpredictable” – e noi abbiamo rinunciato a un mezzo di trasporto. Ci abbandoniamo a una dolce indolenza tropicale, scoprendo della nomea lugubre di Koh Tao, conosciuta come “l’isola della morte”. Dal 2014 sette turisti occidentali, tutti meno che trentenni, sono morti qui in circostanze misteriose. L'ultimo caso sospetto è quello della trentenne belga Elise Dallemagne, morta a fine aprile 2017 e ritrovata impiccata nella foresta con il corpo sfigurato dai varani.
La notte una tempesta si abbatte sull’isola, svegliandoci di soprassalto per mettere in salvo le cose lasciate sul terrazzo.
28, 29 novembre 2022 | Koh Phangan
Viaggiare è creare le condizioni per le quali esistere nel presente sia un’attività piacevole di per sé, senza necessità di legarla a qualche attività o a qualche fine, ne al passato né al futuro. Un significato più vicino a un estemporaneo cazzeggiare, al ritrarsi dal concetto stesso di produttività.
Oziare è un atto ecologico.
Al tramonto, sull’ampia spiaggia di Haad Yao, le persone partecipano a un rito di contemplazione collettiva. I più guardano semplicemente il sole calare sull’orizzonte, accendendo la quinta scenica di nembi che striano il cielo. La temperatura del mare è troppo invitante per non cedere al richiamo di un ultimo bagno di giornata, e a starsene sulla sabbia si finisce per essere il pasto d’orde di zanzare. Scivolo nella acqua immobile, la sensazione di immergermi nella luce incandescente del tramonto, la superficie che s’increspa appena simile a metallo fuso, il crepuscolo che si smorza lentamente, una lenta carezza di fotoni, cedendo il passo all’oscurità mentre la spiaggia si spopola.

Per cena indulgere nell’equilibrio di sapori di un Thai curry Pineapple: una zuppa di cocco con ananas, carote, cipolle, tofu, peperoncino e cavolo cappuccio.
Seduto nell’area comune di un ostello a lavorare, mi chiedo se questa condizione sia estendibile – e fino a che punto – o replicabile con una certa frequenza. La presenza fisica ha una qualche rilevanza in ciò che faccio, in ciò che moltissimi fanno? Quella rilevanza è annullabile da surrogati tecnologici? E se per anni non fosse stata altro che una zona di comfort e nulla più? E se per questa rassicurante compresenza fisica quotidiana, spesso fine a sé stessa, io, ma anche molti altri in situazioni analoghe, non ci si sia persa l’occasione di essere persone migliori, anche lavorativamente? Migliori perché più liberi e indipendenti, più contaminati dagli altri, più in grado di cambiare il proprio punto di vista, più adattabili?
Nella grande area comune si sta scalzi, sdraiati al suolo su delle stuoie con schienale. Nell’adagiarmici, mi chiedo per un attimo “chissà chi ci si è seduto”. Poi scorgo un cane spelacchiato che si stiracchia pigramente su una stuoia poco più in la. Che volete che ci appartenga, su questa terra? Al massimo ci capita d’utilizzare, tutt’al più custodire. Nulla è davvero nostro e, francamente, vista da qui, la spasmodica tensione all’accumulo e al possesso di materialità appare una dissennata perdita di tempo, senza sfumature donchisciottesche. Qualcosa nella nostra civiltà s’è rotto molto tempo fa, e ci siamo scordati che nessuno di noi vivrà per sempre.
Da quando abbiamo lasciato Bangkok, ormai più di due settimane fa, non abbiamo ancora incontrato italiani.
30 novembre - 3 dicembre 2022 | Suratthani, Khao Sok National Park, Krabi
Sono riuscito a spedire una lettera a mia nonna, dopo una lunga ricerca di un ufficio postale. Chissà quanto impiega un’anacronistica missiva a giungere dall’altra parte del mondo, in questi tempi d’immediatezza digitale.
Lasciamo Koh Phangan su un traghetto ben più lento di quello con cui siamo arrivati, ma che ci da la possibilità di viaggiare all’aria aperta sul ponte. I profili tropicali delle isole sono sovrastati da una volta plumbea e informe, circonvoluzioni cerebrali di un grigio minaccioso. In lontananza vediamo un tornado alzarsi dal mare e salire fino alle nuvole basse. Sottile e oblungo, proteso verso il cielo come fosse un dito che tenta di accarezzarlo.
Suratthani è fuori dalle rotte turistiche. Ci perdiamo in un mercato che pullula di cibi di cui intuire l’origine e la composizione è un esercizio di fantasia. Nessuna scritta che non sia in thailandese. Tra le bancarelle ci guardano con una punta di divertito stupore, prima di tornare nella propria rispettosa compostezza. È bello sentirsi creature esotiche.
In una piazza circondata da palazzi dai colori sbiaditi e dalle inferriate arrugginite e di fogge tutte diverse, assistiamo alla performance di un ragazzo che canta davanti a un tablet. Chissà chi c’è dall’altra parte dello schermo, chissà quale imprevedibile modalità ha trovato per fare ciò che fa, per esprimere il proprio talento.
Ci addentriamo nel cuore pluviale del paese, diretti al parco naturale nazionale di Khao Sok. L’autista del van interpreta il proprio lavoro come se stesse trasportando organi d’urgenza. Ci facciamo 160 km sperando che l’ennesimo sorpasso azzardato non sia l’ultimo, che oltre la curva non ci siano sorprese, che i freni e gli pneumatici facciano ciò per cui sono stati progettati.
Il paesaggio brulica di montagne scavate dall’acqua e ricoperte da vegetazione tropicale che lascia scoperti solo i pendii più scoscesi e le pareti verticali di nuda roccia.
Esercitare il caso e scoprire cosa offre. Scegliere dove dormire fermandosi e chiedendo di vedere una stanza, senza prenotare mai nulla in anticipo. Finora, sia a Suratthani che a Khao Sok, la sorte è stata dalla nostra. Quando l’autista ci scarica lungo la strada, camminiamo finchè gli zaini non si fanno troppo pesanti nel clima tropicale. Ci fermiamo in una reception deserta a rifiatare. Sembra che la struttura sia chiusa e stiamo per andarcene quando una donna appare. Ci mostra un bungalow nel suo giardino, alle pendici di uno sperone di roccia che buca le fronde degli alberi. Come regalo di benvenuto, un casco di banane appena colto a pochi metri. Trascorro il pomeriggio ad ascoltare la pioggia tropicale che picchietta le foglie.

Al ristorante di cui siamo gli unici avventori, il proprietario non vede l’ora di avere qualcuno con cui parlare. Dopo un po’ chiede di leggermi la mano e io acconsento. Per me, l’unica legge di ogni destino è il caso. Il resto sono ricami d’immaginazione e narrazioni.
Khao Sok, per quanto meta turistica, ha il suo innegabile fascino preistorico. Un’antica vallata scavata dai corsi d’acqua nei millenni, lasciando formazioni di roccia verticali ornati di vegetazione lussureggiante. Nel frattempo, il governo thailandese ha creato una diga per produrre elettricità, col risultato di trasformare la valle in un lago artificiale e i rilievi in isole. Data la profonda trasformazione del territorio, le autorità hanno trasportato alcuni animali – tra cui elefanti – dalle neo-isole alla terraferma utilizzando elicotteri.
Ci spostiamo su piccole imbarcazioni, tutte che seguono lo stesso itinerario con le stesse tappe. Almeno essendo bassa stagione, il lago non è affollato. Visitiamo una grotta piena di stalattiti e stalagmiti, e mi interrogo su quanto la nostra presenza qui crei danno a formazioni calcaree di milioni di anni. Dopo un pranzo consumato su delle piattaforme galleggianti mi tuffo nel lago. L’acqua è insospettabilmente calda, anche se scende una leggera pioggerellina. Poco dopo prendiamo parte a un trekking che risale un torrente tra la giungla che veste una delle isole. Per non inzuppare le scarpe – che col clima tropicale si asciugherebbero in una settimana – e rifiutandomi di comprare delle sorte di sandali da scoglio usa e getta in plastica che cercano di rifilarmi, opto per i piedi nudi. Forse non la scelta migliore in termini di sicurezza, ma c’è qualcosa di emozionante nell’affondare coi piedi nel fango, nel tastare le radici coi palmi. Una sensazione di riconnettersi al suolo, di utilizzare i piedi come organi di senso, percettivi del terreno, un risveglio tattile che per un occidentale è comunque merce rara e apprezzabile. Almeno per quel che mi riguarda.
Il van con cui lasciamo Khao Sok è stracolmo, guidato da un autista con l’allegria di un condannato a morte, ed emette un clangore metallico poco rassicurante quando cambia marcia. Ci scherziamo su con gli altri passeggeri, ma dopo meno di mezz’ora dalla ruota posteriore destra inizia a uscire del fumo denso e siamo costretti a fermarci. Piove e ci accomodiamo nel portico di casa del meccanico che cerca di riparare il mezzo. Un’ora, poi due. Finisce che cambiamo van e ripartiamo all’ora a cui dovremmo già essere a destinazione.
Arriviamo a Krabi così tardi da non potervi ripartire. In più, la chiamata della proprietaria del bungalow dove abbiamo dormito mi informa che ho scordato lì un sacchetto col rasoio e le scorte di tabacco. Ci accordiamo per farmelo recapitare l’indomani, col primo van che partirà. La cittadina non è un granchè e al mercato, dove andiamo in cerca di cibo, è stato allestito un grande palco da cui bambini e adolescenti si alternano in performance di musica pop occidentale.
Messi in fuga dalla pioggia ci rintaniamo nella stanza che abbiamo affittato, un’ex aula scolastica dai muri multicolore e una parete finestrata, inondata dai rumori del traffico che sale dalla strada. L’atmosfera delle città mi ammorba, affatica i pensieri. Non si capisce mai cos’è abitato e cosa no. Vita e morte, vegetazione e cemento, ordine e fatiscenza. Tutto confuso in un amalgama indistinta e caotica.
Recupero ciò che ho lasciato a Khao Sok appena in tempo per pranzare e ripartire. Me la consegna lo stesso autista con cui siamo rimasti a piedi. Per la prima volta mi sorride. Dalla casa di fronte al ristorante – qualche tavolo di plastica accanto ai fornelli di una signora tondeggiante e dallo sguardo bonario – sbuca un ragazzo che si offre di fare da interprete per le ordinazioni. Poi ci invita a bere il caffè in quello che è una sorta di coffee shop casereccio. Chiacchieriamo con lui – che è metà portoghese ma dichiara di non volerci avere nulla a che fare –, un canadese che è rimasto qui dal Covid e il padrone di casa che vende erba e culla il figlio appena nato tra una canna e l’altra. Ci raccontano di essere preoccupati dall’epidemia di meth che si sta diffondendo in Thailandia, rendendo le persone simili a zombie attraverso una droga devastante e a basso costo.
4 - 10 dicembre 2022 | Koh Lanta, Koh Lipe
Da Krabi saltiamo al volo – qui i trasporti sono o in ritardo o in anticipo, in ogni caso imprevedibili – su un van che in due ore e mezza (di cui 20 minuti sul ferry) ci porta a Koh Lanta, Mar delle Andamane. Qui cantano i muezzin e le donne sono velate. Le fisionomie dei volti cambiano, l’abbigliamento pure. I piatti mutano in versioni influenzate da spezie della cucina islamica della vicina Malesia.
A cena, in un baracchino lungo la strada, incontriamo un australiano di padre italiano. Lui non parla una parola ma si è appena tatuato sulla coscia “Vivi dove i pomodori sono buoni”. Non una cattiva regola di vita, a pensarci bene.

Riconciliarsi con l’universo fumando su un’amaca ascoltando i diversi suoni che la pioggia fa colpendo le foglie, i tetti in lamiera, le pozzanghere. Una polifonia plumbea. Mi rendo conto che ormai la sera spero che inizi a piovere. Ancora non ho idea di quanto questo mio desiderio verrà esaudito con particolare generosità.
Trascorrere una mattinata nella spiaggia più meridionale di Koh Lanta, a immergersi a intervalli regolari nel mare caldo. È lunedì ma cosa può significare qui, lontano dalla frenesia del mondo?
Nel pomeriggio il cielo si addensa per poi rompersi. Una delle piogge più potenti che abbia mai visto si abbatte sull’isola, in assenza di vento. Dura poco. Quando torna il sole ascolto il suono della natura che si risolleva e esplode di nuovo, con ancora più vigore. È come lo scricchiolio di uno stiracchiarsi, il crepitio di una fiamma che divampa, il protendersi della materia oltre i propri confini, pronta a essere ancor più di prima. La vita si espande ancora e ancora.
Credo che ognuno abbia bisogno di coltivare riti che rafforzino la propria fede nel senso dell’universo in cui ci si trova a esistere. Il senso del sacro, l’istinto al trascendente. Qualcosa di indefinibile e rassicurante allo stesso tempo. Contemplare un tramonto dalla spiaggia, con le barchette dei pescatori che riguadagnano pigramente la costa rimette molte cose al loro posto, le ridimensiona. Ricorda che tutto ciò che finisce poi ricomincia, nulla che ci si possa fare. Una metamorfosi ineluttabile che trascina con sé ogni cosa, portando in dono nuova bellezza. Qualcosa che accarezza l’anima scivolando dentro agli occhi, penetrando i pori della pelle.
Sulle isole si risveglia una certa indolenza, più rara che sulla terraferma. Forse il fatto di essere circondati dal mare, di avvertirne costantemente la presenza, trasmette l’idea che nulla possa sfuggire. Che non ci siano confini da espandere. E allora perché avere fretta? Perché abbandonarsi a frenetici desideri di conquista?
L’ultima tappa thailandese ci attende a tre ore di barca verso sud, su un mare non proprio accomodante. Le ginocchia dolgono, le orecchie sono assordate dal chiasso dei motori, l’aria diventa irrespirabile appena ci si ferma.
Così è. Si sta fermi, scomodamente seduti e si aspetta. Inevitabili esercizi di pazienza.
Capiamo ben presto che la Koh Lipe paradisiaca e semi-incontaminata dei racconti di chi è stato qui anche solo 5 anni fa non esiste più. Nel frattempo, il minuscolo centro è trasformato in un bazar a misura d’occidentale, affollato e rumoroso, coi butta-dentro che ti sventolano i menù in faccia e le prostitute ai banconi dei bar che urlano per attirare l’attenzione e indurti in tentazione.
Infilandoci in una via buia e fangosa riusciamo a scovare il ristorante meno turisticamente invitante dell’isola. La signora ci indica un tavolo e farfuglia “chicken” per poi scodellare due zuppe senza che si possa controbattere o esprimere qualsivoglia preferenza di altra natura. Trascorriamo un’unica notte qui, con la pioggia che non accenna a mollare la presa.
Lasciamo la Thailandia – o meglio, crediamo di averlo fatto – con una speedboat che divora miglia su un mare poco amichevole. Dopo mezz’ora di navigazione, l’equipaggio confabula preoccupato e la barca si ferma. A quanto pare all’ufficio emigrazione hanno scambiato due passaporti, lasciando a terra quello di una passeggera. Ergo, si torna indietro. Restiamo fermi nella baia in attesa di capire gli sviluppi, mentre il capitano suona il clacson forse per accelerare il processo che dura comunque più di un’ora.
Nelle seguenti due ore di viaggio cambieremo fuso orario e nazione, religione, cucina e chissà quante altri aspetti della realtà che ci circonda.
Arrivederci, Thailandia. Sei stata dolce.
Foto per gentile concessione dell’iPhone 8 di @nicolocarlon