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Dispacci dall'Indocina - #2 Scendendo dolcemente lungo il Siam

  • Writer: Alvise Bortolato
    Alvise Bortolato
  • Mar 14, 2024
  • 9 min read




24 novembre 2022

 

Provo una sorta di sollievo sensoriale ad allontanarmi da Bangkok. É come la fine di un assedio fatto di rumori, di luci al neon, di smog e di tentativi di venderci qualsiasi merce possibile e immaginabile. Quando chiediamo all’autista del tuk tuk di portarci alla stazione dei treni, mostrandogli le mappe dell’iPhone, lui annuisce e ci porta in un’altra stazione da cui comunque parte il treno giusto per dove dobbiamo andare. 10 bath a testa per un’ora di viaggio su un serpente metallico che scivola lento tra case, zone industriali e acquitrini man mano che si allontana dalla capitale. Lasciarsela alle spalle da l’impressione di veder sbiadire le ultime tracce angoscianti di Occidente. La percezione che il ritmo cambi, che la frenesia perda presa sulle faccende umane.

 

Alcuni frammenti di questa discesa rapsodica e imprevedibile verso sud, con il vago obbiettivo di raggiungere la Malesia entro il 10 di dicembre.

 

 

19 novembre 2022 | Samut Songkhram

 

Serve comunque un’altra ora e mezza, questa volta su un van scassato in cui siamo gli unici forestieri, per raggiungere la seconda tappa: la caotica Samut Songkhram.

Ci inoltriamo a piedi lungo le vie invase di traffico di questa cittadina adagiata sulle rive del Mae Klong in cerca di un posto dove dormire.

 

Il centro nevralgico è costituito da un mercato che si tiene dentro la stazione dei treni, coi convogli che passano a poche decine di centimetri da bancarelle e avventori. Attorno ad esso si dipana un labirinto di strade soffocate da una bordatura costante di edifici, ognuno con materiali, tecniche di costruzione, rifiniture, tinteggiature, e grado di fatiscenza differenti.

 Percorriamo la strada che costeggia il fiume lasciandoci il clamore polifonico del centro alle spalle e ci sistemiamo in una casa di legno lungo il fiume. C’è un piccolo pontile da cui gustiamo il tramonto esplodere di tinte rosacee mentre imbarcazioni di vario tipo scivolano placide.

 

Quando il cielo è oramai livido, una pioggia fitta crivella la superficie dell’acqua. Torniamo in centro in cerca di cibo e finiamo per cenare su di un tavolino incassato sulle rotaie, giacchè il mercato, simile a un organismo proliferante, si riappropria di ogni spazio dopo il passaggio dell’ultimo treno del giorno.

 

 

20 novembre 2022 |Samut Songkhram – Pak Tho – Cha am

 

I piatti del cosiddetto street food lungo le arterie di città thailandesi sono interpretazioni personali dello stesso ventaglio di piatti. Nei baracchini locali sotto ai tendoni i menù raramente sono più lunghi di una pagina, spesso scritti a mano e in thailandese, con i cavalli di battaglia ben in evidenza su lavagne apposite visibili dalla strada.

 

Assisto meravigliato alla precisione con cui cucinano sui wok, un passaggio dopo l’altro mi ricordano che non c’è altro talento che la ripetizione di gesti, di forme di pensiero, e che solo attraverso l’esercizio sia possibile perseguire individuali e insospettabili forme di perfezione. Poi mangi, e le tue papille gustative si rotolano roventi in un harem di sapori, con una vocina (che si fa via via più flebile di giorno in giorno) a ricordarti che c’è sempre il rischio che sia l’intestino a pagare il conto di quel piacere.

 

A Pak Tho, crocevia sperduto dove fatichiamo a reperire cibo e comunichiamo a gesti e sorrisi, ci piazziamo in stazione in attesa del treno, dopo una corsa su di un autobus ammaccato, variopinto, e privo di porte.

Alla biglietteria ci dicono che dovrebbe passare tra un’ora. Dopo mezz’ora arriva.

Le stazioni si susseguono tutte uguali, cantieri in diversi stati di avanzamento che seguono un progetto unico, replicato a ogni fermata. A quanto pare il governo ha deciso di conferire a ogni stazione la stessa importanza, o forse è un’idea di unità e coerenza estetica. Tuttavia, l’effetto che alcune producono nelle località minori è di incompiute cattedrali nel deserto, progetti architettonici sproporzionati rispetto al contesto verdeggiante disseminato di baracche attorno all’unica strada asfaltata.  

 



 

Mentre il treno continua a fermarsi a intervalli di pochi minuti, rifletto che se il mondo non è ancora imploso è perché c’è qualcuno – ancora abbastanza, per fortuna – che va lento.

Chi cucina un piatto alla volta, chi raccoglie il riso a mano, chi si sposta su mezzi lenti. Chi si prende il proprio tempo umano per fare cose che la tecnologia – a patto di potersela permettere – consente di fare in tempi nettamente minori.

 

Se non fosse per loro, se tutti agissimo nella realtà che ci circonda alla ricerca spasmodica della massima rapidità ed efficienza, il mondo durerebbe un battito d’ali di farfalla, prima di implodere.

Che non sia in gran parte la fretta – spinta dall’assioma che il tempo è denaro – ad aver infiacchito l’Occidente negli ultimi secoli? Nel costante tentativo di accelerare, che sia il consumo o l’accumulo, ci si trova sfiniti, usurati, ottenebrati fino all’incapacità di comprendere la realtà. La fretta finisce per instupidire.

Senza la lentezza di alcuni, noi tutti siamo perduti.

 

 

Il paesaggio rurale – nella regione del Phetchaburi – attraverso cui scivola il treno muta gradualmente, facendosi man mano meno urbanizzato. Il cemento e le strade cedono il passo ai campi coltivati inframmezzati da acquitrini. A bordo, una signora tedesca sulla settantina ci racconta che viaggia da sola per il sud est asiatico da sette mesi, e alle fermate salta giù dal vagone e lancia pezzi di misteriosi affettati ai cani randagi asserragliati attorno alle banchine. Ci regala una mappa dei treni in thailandese, di cui leggiamo gli orari scritti in cifre senza sapere a cosa corrispondano. Al nostro cacofonico passaggio fatto di sbuffi, cigolii e sferragliare, s’alza in volo un’incredibile varietà di volatili. Ci illudiamo che la nostra meta sia un posto verdeggiante.

 

 

Ci sarebbe piaciuto arrivare nella jungla, e invece siamo finiti in una jungla di puttane e puttanieri: Cha am. Scegliendo i luoghi in cui dormire adocchiando i prezzi online e poi presentandoci direttamente a chiedere una stanza, stanchi dal viaggio ci fermiamo in una guesthouse di infima lega – la finestra della stanza in cui dormiamo si affaccia su un corridoio di accesso a altre camere – tra i palazzoni che deturpano il lungomare. La via che la ospita è una sorta di bordello a cielo aperto. Mentre passeggiamo in cerca di cibo, le prostitute si sbracciano fuori dai locali cercando di catturare la nostra attenzione offrendo servizi omaggio, più che altro per scrollarsi di dosso i vecchi puttanieri bavosi che hanno per clienti. Mentre un ladyboy cammina tra me e Nicolò sussurrandoci proposte indecenti, penso ad Alice e alle coppie che implodono per la stessa noia reciprocamente imposta per il timore di perdersi, e allo squallore miserabile di cui l’umanità è capace.

Fumo l’ultima sigaretta osservando la strada viscida di pioggia su cui si specchiano le luci di un bar dove un capannello di attempati occidentali beve e fuma mentre due giovani thailandesi giocano a biliardo annoiate. Sotto il diluvio, uno degli uomini sale in sella al motorino seguito da una delle ragazze. Si avviano col fanale incerto che fa luccicare le pozzanghere e i rivoli, protetti da un ombrello tremolante sorretto da lei.


 

 

21-22 novembre 2022 | Prachuap Khiri Khan

 

Tappa a Prachuap Khiri Khan, successiva cittadina costiera dove la Thailandia si assottiglia al punto che dal litorale al confine con la Birmania ci sono circa 15 km. Calando gradualmente verso sud via rotaia stiamo anche abbandonando le rotte turistiche che preferiscono il nord o il volare direttamente a sud o sulle isole. In generale, nelle cittadine cerchiamo di camminare il più possibile. Farlo in luoghi non turistici, in un paese in cui la separazione privato-pubblico degli ambienti domestici non è così marcata, permette di cogliere istantanee di vita domestica. Quando il sole scende, i salotti delle case si stagliano sull’scurità delle strade facendo emergere bambini che giocano tra motorini e biciclette parcheggiate, famiglie che cenano con zuppe fumanti davanti al ventilatore, anziani che guardano la televisione spaparanzati in poltrone reclinabili. Un uomo, sul divano avvolto dalla luce gelida del neon, tatua con una canna di bambù di almeno un metro una donna seduta a gambe incrociate sul pavimento.

 

 

Sistemati in un bungalow fuori dal centro, la notte chiudiamo gli occhi accompagnati da un concerto di grilli e rane, sovrastato ogni tanto dalla pioggia fitta che solletica il tetto di lamiera.

Un viaggio è anche fatto dei suoni con cui ci si addormenta, notte dopo notte, letto dopo letto.

 

In un bar del lungomare dal sapore rivierasco declinato in salsa thai, chiacchieriamo con un ragazzo – metà americano e metà thailandese, cresciuto a Denver e poi trasferitosi qui – che vuole creare un mercato della marijuana sul modello del Colorado, ora che in Thailandia è stata resa, in maniera alquanto nebulosa, legale. Ci spiega che qui ne hanno sempre consumata nei secoli, fino a un proibizionismo degli ultimi 50 anni terminato nel 2018, quando il governo ha fiutato il business, soprattutto come volano per il turismo. Ovunque nei giardini e nei terrazzi delle case sbucano piante inconfondibili, e spesso i proprietari di casa, i tassisti, i ristoratori, ti mostrano orgogliosi la propria produzione, proponendoti di fumarla assieme. Paese che vai…

 



 

Altra presenza costante e pervasiva è la plastica. Ne viene effettivamente impiegata una quantità impressionante – specie come packaging per qualsiasi cosa, accendini inclusi – e spesso priva di ogni logica agli occhi di un europeo con un briciolo di consapevolezza ambientale. Allo stesso tempo, queste sono considerazioni intrise di occidentale ipocrisia radical chic, giacché una parte consistente del boom della società dei consumi (con annesso, presunto, benessere) è stato fondato sul petrolio e i suoi derivati. Mettersi su qualche pulpito ecologico-ambientalista e condannare l’altrui consumo di plastica, dopo aver imposto e diffuso un modello di sviluppo per trarne enorme profitto, è paradossale. Sarebbe un po’ come se i Rolling Stones dicessero ai Maneskin di non drogarsi perché accorcia la vita.

 

 

23-24 novembre 2022 | Prachuap Khiri Khan - Chumphon

 

Puntare a sud significa andare in contro alla stagione delle piogge, che in questo periodo interessa parte dell’Indonesia e della Malesia. Il clima, man mano che i treni ci avvicinano alla Malesia, cambia e l’implacabile sole tropicale che ci ha scudisciati nei primi giorni lascia il posto a giornate in cui il cielo è spesso velato e i rovesci pressoché quotidiani. Brevi e intensi elargitori d’umidità e di vita. Il fatto che piova è anche un toccasana che rinfresca l’aria, considerando che le temperature col sole gravitano sovente oltre i 30° e che vagabondo con uno zaino di un certo peso sulle spalle.

 

 

Spostarsi via treno significa non avere un granché controllo sul ritmo del proprio viaggio, è esercitare il caso nell’accettazione che quello giusto potrebbe essere già passato per quel giorno. Avere fede che tanto si arriva, e che ogni luogo ha singolari e imprevedibili forme di bellezza da sprigionare. L’approccio di base che utilizziamo consiste nel recarci in stazione e chiedere quando passa e dove giunga – in un lasso di tempo tra le 2 e le 4 ore a seconda degli umori – il treno diretto a sud, farfugliando nomi di cittadine lungo la direttrice. Sulla base di questo decidiamo, o meglio scopriamo, la destinazione. Solitamente servono circa 4 ore per coprire un tragitto di circa 200 km, al prezzo di una trentina di bath (1€ corrisponde a circa 36 bath).

 

 

Il convoglio è lento e rumoroso, colmo di giovani studenti che parlano o di anziani che stanno sdraiati a sonnecchiare, circondati da sacchetti pieni di chissà che cosa. Il corridoio è instancabilmente percorso da venditori di cibo e bevande, simili a formiche che comunicano scambiandosi odori quando s’incontrano e uno deve cedere il passaggio all’altro. I controllori passano sporadici, annuncianti dal tintinnio dei loro buca-biglietti metallici. Tra le rigide panche metalliche siamo quasi sempre tra gli unici occidentali, e talvolta ciò genera ancora qualche sguardo incuriosito. Essere esotismo è una strana sensazione. 

 


Il succedersi delle stazioni fotocopia e dei paesaggi rurali – un susseguirsi di colture di palma, canna da zucchero, riso, albero della gomma – è intervallato dalle sigarette che scopro di poter fumare tra uno scompartimento e l’altro, standomene sporto nel vuoto in compagnia del tabagista thailandese di turno con cui scambiare cenni e sorrisi, offrendoci reciprocamente sigarette o l’accendino che entrambi, evidentemente, abbiamo. 

 

 

Per il proseguo del viaggio conserviamo ancora diverse incognite, forse con una punta di autocompiacimento per il risvolto avventuroso della questione. Giungeremo a Singapore e da lì, l’idea iniziale era volare in Borneo e proseguire verso nord fino alle Filippine. Il periodo, da un punto di vista climatico, è disastroso per visitare il Borneo malese. Tuttavia, l’attrattiva che quei luoghi esercitano su di me – un’attrattiva che affonda le sue radici nell’innamoramento viscerale per il ciclo dei pirati della Malesia

salgariano, la prima e più determinante esperienza letteraria di cui abbia memoria – mi impedisce di pensare di limitarmi a sorvolare la terza isola più grande del mondo a 11000 metri di quota.

 

 

Arriviamo a Chumphon per ripartire la mattina seguente. Piove intensamente, pochi passi senza ombrello e si finisce zuppi, un fradicio tutt’uno col clima tropicale. Ceniamo per strada e dormiamo in un posto singolare, le cui camere distribuite in due edifici contrapposti si affacciano direttamente sulla strada. Qualcuno potrebbe accostare l’auto e bussare alla nostra porta senza nemmeno scendere. Resta il fatto che dormire in posti poco costosi e mangiare dove mangiano i locali è anche il tentativo di dare un contributo a preservare la bellezza di questo paese. Quando noi stranieri, forti di un costo della vita locale decisamente più basso del nostro, scegliamo di consumare qui cose più costose della media, concorriamo a escludere la popolazione locale da sempre più servizi, alzando il costo della vita e finendo per impoverirli e costringerli a emigrare. Come accade in certe località esclusive dove il turismo facoltoso ha reso ogni immobile fuori dalla portata dei locali.

 

 

Ci svegliamo sotto un cielo fosco, fiaccati da un’umidità avvolgente. Attendiamo oltre un’ora una navetta per il porto, prenotata la sera prima con raccomandazioni di massima puntualità. Salutati da nuvole scure che si stagliano oltre la cortina di palme che fanno da quinta scenica al pontile da cui ci imbarchiamo, lasciamo per la prima volta in questo viaggio la terraferma, diretti verso le isole del Golfo.

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