top of page

Dispacci dall’Indocina #12 – Il delta del Mekong profuma di cocco

  • Writer: Alvise Bortolato
    Alvise Bortolato
  • Feb 24
  • 9 min read

Si viaggia (…) prima che materialmente (…) con la fantasia, eccitata da tutte le accumulazioni culturali, quegli strati in cui si sovrappongono parole, letture, immagini, toponimi, libri di viaggio, oggetti esposti nei musei, carte topografiche di luoghi famosi, di morfologie e organizzazioni spaziali che ci hanno colpito, di fotografie viste nei libri di viaggio e nelle riviste.”


Dicearco – Il viaggio nel deserto” 

 

 

29, 30 gennaio 2023 | Ben Tre

 

Il cielo è coperto e il mattino è avvolto in un grigiume umidiccio. Fa fresco, una sensazione che non provavo da un po' Uncle Thai, il proprietario dell’homestay, ha organizzato per noi e i ragazzi di Humboldt un’esplorazione in motorino. Protagonista agricolo del delta del Mekong, o almeno di questa zona, è senza dubbio la palma da cocco. Un’intera filiera è organizzata attorno a questa pianta di cui, letteralmente, non si butta via nulla.

La prima sosta è per assaggiare del cocco sticky rice, preparato da un gruppo di donne protette da una tettoia realizzata col legno e le fronde delle palme. Coi motorini percorriamo le strette stradine immerse nelle coltivazioni. Ovunque scorre acqua e le isolette sono connesse da ponti di ogni sorta.



 

Al mercato di Ben Tre c’è davvero di tutto, almeno a livello agroalimentare. Dai tagli di carne degli animali più conosciuti e consumati fino a sinuose varietà di pesce simile alle anguille, tartarughe, serpenti, grosse rane. Gli odori intensi fanno venire la nausea a più di un partecipante. Assaggiamo frutti che non abbiamo mai visto, tutti coltivati sul delta.

La peregrinazione su due ruote continua con una sosta alla fabbrica dove recuperano la fibra dal cocco con cui ottenere robuste corde e filato per tappeti. Ciò che viene scartato diventa combustibile per alimentare i macchinari o per essere rivenduto altrove.



Mi chiedo quante persone dipendano da questa pianta, qui dove tutti dipendono dal Mekong e dalla costanza delle sue piene che fertilizzano le terre del delta. Nasce in un punto imprecisato dell’altopiano del Tibet, tanto che la sua lunghezza è ancora oggetto di dibattito, e attraversa Cina, Birmania, Laos, Thailandia e Cambogia prima di arrivare in Vietnam dove viene chiamato Sông Cùu Long (fiume dei nove dragoni) per i nove bracci che irradiano il delta prima di sfociare vicino a Ho-Chi-Minh. Nonostante sfami milioni di persone, è inserito nella lista dei dieci fiumi più inquinati al mondo.

La sera, prima di addormentarci nel bungalow sospeso sull’acqua, qualcosa produce un suono misterioso, trascinato, paludoso.



 

Nell’aria frizzante del mattino scorgiamo Uncle Thai intento a costruire un laghetto per abbellire la proprietà. Imbeve vecchi stracchi nel cemento e li deposita l’uno sull’altro a creare una trincea. Suo figlio pesca mentre consumiamo un’ottima colazione, prodotta dalle prodigiose mani della moglie. Una deliziosa zuppa vegetale è l’ultima coccola prima di andarcene diretti a Can Tho. Ci affida a due tassisti, ovviamente su motorette scassate, e ci saluta.



 

Il sole picchia duro e arroventa ogni cosa, il peso degli zaini accentua il caldo e non ci vuole molto perché il sudore inzuppi i vestiti. Arriviamo in stazione che siamo cotti e saliamo a bordo di un bus ben più sgangherato di quello con cui siamo arrivati da Saigon. L’aria condizionata sparata al massimo per contrastare spifferi tra le lamiere rosicchiate dalla ruggine. L’autista fuma nel piazzale, camicia sbottonata e torso sudato, senza produrre ombra per via del sole allo zenith. Sulle banchine all’ombra dei portici della stazione – un’architettura brutalista da regime, violentata dal clima tropicale e dall’indifferenza dei vietnamiti alla sua manutenzione – i tabagisti abbondano e accendere una sigaretta dietro l’altra e sudare sembrano essere le uniche due attività concesse nell’attesa. In Vietnam le sigarette hanno un costo irrisorio: un pacchetto di marchi locali costa circa 20 centesimi, di marchi importati circa 80.



Nonostante il paese sia una Repubblica Socialista guidata dal Partito Comunista del Vietnam, la più rinvenibile traccia del comunismo consiste nelle bandiere rosse – in due versioni che si alternano, falce e martello o semplice stella gialla – lungo i viali e qualche palazzo governativo dall’austerità sovietica. Per il resto non percepisco grosse differenze rispetto ai paesi precedenti e alcune case emanano una sorta di sfarzo, seppur pacchiano, nelle barocche cancellate che le proteggono, nei luccichii degli infissi cromati e le macchine lucidate a specchio nel piazzale piastrellato.

L’autista fuma spensierato mentre lungo la strada si susseguono una miriade di attività. I caffè sono suddivisi in due aree: una coi tavolini e una con le amache. Basta questo a sancire la superiorità culturale del Vietnam su qualsiasi altro luogo in cui sia mai stato. In due ore e mezza siamo a Can Tho.



 

L’homestay Son Guy è affacciata su uno dei canali, in un’area residenziale a qualche chilometro dal centro città. Un grosso cane, incrocio tra un husky e un pastore tedesco, sovrappeso e coperto di folto pelo appare come un’insensata bizzarria in questo torrido clima tropicale. Una delle inservienti mostra i segni dell’agente arancio ed è di una dolcezza disarmante. Usciamo per cenare, finendo a girovagare tra i baracchini. Il cibo è sempre ottimo, i prezzi ridicoli. Al baracchino di un’anziana, pago una crêpes coi gamberi ma le uniche banconote che ho, appena prelevate, sono di grosso taglio. Si crea scompiglio mentre l’anziana gironzola dai ristoratori vicini per racimolare il resto. Alice si ricorda di avere altre banconote, gliele mostriamo, nella confusione di rendere i soldi in giro la banconota iniziale rimane sul suo carretto. Capendo che non se n’è accorta, glielo faccio notare. Lei strabuzza gli occhi, mi riconsegna la banconota scusandosi e quando realizza che siamo assolutamente sereni, esce dal baracchino e ci abbracciamo tra gli sguardi divertiti degli avventori e dei passanti.



Rientrati in homestay chiedo un caffè e la cameriera mi risponde qualcosa che ovviamente non posso capire. Aspetto un po’ nella veranda ma vedendo che non giunge nulla deduco che la ragazza avesse cercato di spiegarmi che non potesse esaudire la mia richiesta. Rientro in camera. Esco un’ora dopo a fumare e il caffè e posato sul tavolino, la tazza sormontata da un grosso filtro e le gocce che ancora non hanno smesso di scendere. Ringrazio la cameriera e sorbisco il caffè mentre tra l’oscurità dei canali, questi infiniti e intricati capillari del Mekong, risuona musica vietnamita. Domani ci attende l’esplorazione in barca.

 



 

31 gennaio, 1 febbraio 2023 | Can Tho

 

Sono da poco passate le cinque, l’alba non è ancora sorta e noi stiamo salendo su una barchetta con Phone, la nostra guida per la giornata. Scivoliamo lungo i canali nel crepuscolo che annuncia il giorno, coi pipistrelli che cacciano radenti al pelo dell’acqua. Incrociamo qualche barca di cui avvertiamo il rumore e sagome indistinte. Quasi nessuno usa luci a bordo. La luce cresce d’intensità mentre la foschia si leva dal Fiume dei Nove Dragoni rivelando man a mano le rive ornate di vegetazione e palafitte.



L’alba sta volgendo al termine quando facciamo la prima sosta in un mercato galleggiante. Una trentina di strette imbarcazioni legate l’una all’altra, ognuna con diverse merci. Da una di esse una corpulenta signora ci allunga due ciotole di noodles in brodo.



Proseguiamo lungo canali di diversa ampiezza, nell’afa che si addensa e il traffico fluviale oramai a pieno regime. Attracchiamo per visitare un frutteto di dragon fruit che ospita anche manghi, durian, guava. All’ingresso un’imponente vite forma una pergola, in un palo della luce le api hanno creato un alveare e il loro incessante via vai si disperde per il frutteto rendendolo un ecosistema. Con la guida riusciamo a scambiare qualche considerazione botanica e ci racconta che studia una sorta di farmacia erboristica. Ancora un mercato galleggiante e poi la guida ci fa sbarcare in una fabbrica di noodles, di cui ammiriamo l’intero processo. Le imbarcazioni hanno spesso gli occhi disegnati. Chiediamo a Phone che ci spiega che per i vietnamiti ogni cosa ha un’anima, anche ciò che è artificiale e inanimato. Per questo è giusto che ciò che ha un’anima abbia anche gli occhi. Alle dieci del mattino siamo di nuovo sul pontile dell’homestay, pronti per una pennica pre-prandiale.

 



Ancora in strada, perché è qui che la vita asiatica accade. Ceniamo itineranti con una sorta di piadina ripiena, due zuppe Bún riêu, una crêpes, due bao e due caffè. Comunichiamo a gesti, frammenti di frase da Google Translate, e i vietnamiti sorridono divertiti ma alla fine ci si capisce. Spendiamo 110 mila dong, poco più di 4€.



Il caffè lo beviamo in un bar all’angolo di un incrocio, con uno stuolo di sedie e tavoli di plastica che occupano il plateatico. È affollato di anziani che guardano film anni ’90 da un televisore a tubo catodico, antidiluviano, coi colori iper-saturati. All’homestay abbiamo incontrato una coppia di italiani, i primi qui in Vietnam (ma anche nelle peregrinazioni precedenti) e la sera li ritroviamo a cantare al karaoke in mezzo ai vietnamiti entusiasti di sentire canzoni italiane. Dopo l’ultima sigaretta, Alice sobbalza vedendo un grosso ragno entrare in camera poco prima di noi.



 

Il barcaiolo che riaccompagna gli ospiti all’homestay accanto alla nostra scarica serenamente i sacchi dell’immondizia nel fiume. Lì per lì mi chiedo come possa fare una cosa simile, inquinare il fiume su cui vive. È come se scaricassimo la spazzatura nel giardino di casa. Poi rifletto che, forse, fino all’arrivo del “progresso” della plastica usa e getta, gli scarti che la gente produceva fossero organici e biodegradabili. Ergo buttarli nel fiume poteva avere un senso ecosistemico. Il problema, forse, è non aver capito l’impatto che i nuovi materiali di consumo producono sull’ambiente.



 

Affittato un motorino ci lanciamo a esplorare la città. Il caos asiatico ci accoglie in un amalgama di estetica comunista e la strada come centro nevralgico. Mangiamo in un ristorante vegetariano e trascorro il pranzo a osservare il caffè di fronte. Il via vai degli avventori, soprattutto anziani, il modo di salutarsi, la concentrazione di quelli che giocano a carte, i caffè ordinati con un cenno, le sigarette accese abbandonate nei posacenere e aspirate di rado. Gli stessi riti da bar che si possono osservare nei locali di quartiere cittadini o nella provincia italiana. Una rapida e insipida visita a una vecchia casa francese, oggi usata come set cinematografico.

In Vietnam la vita accade per strada, sui marciapiedi, sui locali che la bordano. Lasciar scorrere il tempo sorseggiando un caffè ordinato senza proferire parole e osservando ciò che accade. Basta aver pazienza e qualcosa di sorprendente si manifesta sempre.

Immergersi nel traffico accogliente di Can Tho e partecipare al suo irradiare la città, fluire all’intermittenza dei semafori, fermarsi a un baracchino per l’odore del riso saltato che si sparge dal wok incandescente.



 

 

2, 3 febbraio 2023 | Can Tho, Chau Doc

 

Mattinata nervosa. L’obbiettivo di giornata e attraversare il confine con la Cambogia, ma in realtà non abbiamo bene idea di come. Le informazioni online sono contrastanti. Arriviamo in stazione alle 11 per prendere il bus per Ha Tien che sarebbe dovuto partire alle 11:30, informazione raccolta il giorno prima da uno dei bigliettai. Invece è già partito da qualche minuto, ci dicono. Cambiamo destinazione e prendiamo il bus per Chau Doc. Da lì attraversare il confine dovrebbe essere più semplice, anche perché non abbiamo fatto preventivamente l’eVisa.



Appena saliti a bordo inizia a non sentirsi bene, ma credo anche sia la tensione data dall’incertezza su come andrà la giornata. L’umore è pessimo. In stazione a Chau Doc ci dicono che non ci sono più bus per la Cambogia perché il confine chiude alle 17. Nemmeno pensavo i confini avessero orari. Alla fine due autisti in motorino ci portano in centro paese dove raggiungiamo una guesthouse. Alice sta sempre peggio, dice di sentirsi la febbre e in effetti scotta. Si infila a letto e io scendo a parlare con la proprietaria che maneggia un inglese vagamente comprensibile. Le dico che l’indomani vorremmo andare in Cambogia e si offre di prenotarci la barca per Phnom Pen. Manco pensavo fosse una possibilità quella di risalire il Mekong. Organizzo tramite lei uno scambio dong-dollari per pagare il visto alla frontiera. Alle 6 del mattino seguente verranno a scambiarli.

Alice resta a letto ed esco a procurarle un frullato di frutta. Con l’occasione mi mangio due pho, di cui il secondo è da stella Michelin. Ennesimo caffè sulla strada, con buona pace del mio sistema nervoso, coi passanti che mi salutano. In questa cittadina di frontiera non passano tanti stranieri, e quei pochi se ne stanno rintanati negli hotel sul fiume, mica per strada. Anche qui le case strette e alte, terrazzate all’inverosimile, nessuna uguale all’altra.

 



La sveglia suona alle 5:30 e mezz’ora dopo mi incontro nel parcheggio della guesthouse con una signora che senza nemmeno scendere dal motorino mi passa una busta in cambio di due banconote da 50$. Conto due milioni e mezzo di dong, la ringrazio e riparte. Percorriamo a piedi la strada fino all’hotel dal cui imbarcadero salpa la barca per Phnom Pen. L’aria è fresca e umida, preludio di una giornata afosa ma Alice sembra essersi ripresa. Forse il crollo fisico è stato una somatizzazione dello stress. Paghiamo il visto e il trasporto e la barca parte contro corrente diretta a nord. Ci vorranno quattro ore, dicono.

 



Dopo un’ora attracchiamo a una piattaforma galleggiante che altro non è che la dogana vietnamita. Ci timbrano i passaporti in uscita e ci fanno bere il caffè più costoso del paese, ben 25mila dong. Ripartiamo e qualche centinaio di metri dopo, in un tratto di terra di nessuno fluviale, attracchiamo di nuovo, stavolta sulla terra ferma. Da un ufficio affacciato sul giardino, l’ufficiale di frontiera cambogiano timbra i passaporti dopo averci rivolto qualche domanda.

Siamo ufficialmente in Cambogia.

bottom of page