Dispacci dall’Indocina #11 – Saigon mon amour
- Alvise Bortolato
- Feb 4
- 10 min read
"Chiunque fosse stato circondato, sin dall'infanzia, da un'enorme distesa di terra piatta doveva assolutamente sognare di esplorare ora un paesaggio, ora un altro: uno visibile in continuazione, eppure mai accessibile, l'altro sempre invisibile anche se lo si attraversava ogni giorno in un senso o nell'altro."
Gerald Murnane – Le pianure

27 gennaio 2023 | Saigon
Un’ora di orologio svanisce nel nulla, inghiottita dal cambio di fuso mentre il volo Cebu Pacific copre poco più di mille chilometri in direzione sud-ovest nell’oscurità del cielo, sospesi sul Mar Cinese Meridionale. O Mare del Vietnam, o Mare delle Filippine, dipende a chi domandate. È l’una e diciannove, fuori di sono 26 gradi e io non ho più i miei occhiali da sole. La colonna sonora del viaggio l’ha offerta un obeso asiatico che ha russato ininterrottamente dai sedili alle nostre spalle, con acuti in cui pareva stesse soffocando nella propria pappagorgia. Che inferno dev’essere la dipendenza a trasformare il proprio corpo in una prigione che giorno dopo giorno si fa più angusta e asfissiante. È così diverso dall’essere eroinomani?
Ho Chi Minh City, la vecchia Saigon. Rinominata per riconoscenza ad Uncle Ho, liberatore del sud dall’infame e fallimentare guerra d’occupazione portata dagli USA. Ho lasciato Singapore per un peregrinare tra isole durato un mese e dieci giorni e, ora, l’essere tornato su un lembo di terra dell’Asia continentale mi fa sentire più vicino a casa. Da qui potrei tornare a piedi, senza distese d’acqua da attraversare. Tra un mese sarà il compleanno di nonna, tra due il mio.
In aeroporto gli ATM hanno esaurito i contanti e Grab, unica soluzione cashless, continua a declinare le nostre richieste. Alice, sfinita, si addormenta sulle seggioline di plastica fuori dagli arrivi mentre mi allontano alla ricerca di fruscianti dong vietnamiti. Sono quasi le quattro quando scovo un ATM nascosto in un parcheggio per i dipendenti.
Raggiungo l’unico taxi in vista con due uomini che dormono sui sedili anteriori, i piedi nudi sul cruscotto e le camicie sbottonate sulla pancia. Busso al finestrino finchè quello al posto del guidatore non apre gli occhi, mi fissa assonnato, scuote la mano in segno di diniego e si gira dall’altra parte rimettendosi a dormire.
Gironzolo interrogando a gesti chiunque mi capiti a tiro, mostrando sul telefono l’indirizzo del nostro hotel. Una ragazza mi indica un pulmino e riesce a farmi capire che è una sorta di navetta per il centro città. All’indirizzo annuisce ma quando chiedo l’orario di partenza si fa riluttante. Capisco che Alice e io saremmo gli unici passeggeri, rendendo la corsa poco remunerativa. Insisto finchè riesco a convincerla e così, mentre sveglio Alice, lei fa lo stesso con la collega che a quanto pare dormiva beatamente nel bagagliaio del pulmino. È lei a staccarci i biglietti prima di tornare nel bagagliaio a continuare la dormita. Scivoliamo lungo strade enormi e semi-deserte, coi semafori che scattano inutilmente, in quel lasso di poche ore in cui la città perde la sua frenesia.
Arriviamo all’hotel che sono le cinque passate, gli addetti alla reception che dormono sui divani, le luci soffuse. La stanza, al contrario di quella prenotata, non ha finestre. Crolliamo senza sapere se fuori il sole stia già sorgendo.

Devo ammettere che sono giunto a Saigon con l’intenzione di restarci lo stretto indispensabile prima di fuggire dal suo caos. Quasi nove milioni di abitanti in una metropoli in cui i guerrafondai d’Occidente – francesi prima e americani poi – hanno cancellato praticamente ogni traccia di storia precoloniale. Il Vietnam, poi, è sempre stato particolarmente impermeabile alle religioni e alla monumentalità di ciò che chiedono di erigere, e il comunismo ha smorzato anche le velleità dei singoli di elevarsi materialmente e di farne sfoggio. Una città la cui storia recente è intrisa di sangue.
“Ciò che gli uomini pensano della guerra non ha importanza. La guerra perdura nel tempo. Tanto varrebbe chiedere agli uomini cosa pensano della pietra. La guerra c’è sempre stata. Prima che nascesse l’uomo, la guerra lo aspettava. Il mestiere per eccellenza attendeva il suo professionista per eccellenza. Così era e così sarà. Così e non diversamente”.
Cormac McCarthy – Meridiano di Sangue

Odio svegliarmi in una stanza buia e ce la facciamo cambiare alla svelta. Schizziamo fuori nell’aria umida e nella luce abbacinante del mattino inoltrato. Affamati ci addentriamo a Bên Thành, il mercato coperto che è tra i simboli della città. L’attuale struttura risale al 1912 e ciò basta a renderlo uno degli edifici più vecchi.
Fuori il sole rende l’asfalto gommoso, dentro le luci fredde dei neon rischiarano un tripudio di merci d’ogni tipo, un brulicare di commerci in cui il turista è una gallina dall’uova doro che tutti cercano di conquistarsi. L’infatuazione per il cibo vietnamita scoperta nel corso della decennale frequentazione con Londra si trasforma in innamoramento. A colazione spazzoliamo un phô tom (zuppa coi gamberoni), un bánh xèo (crepe ripiena di verdure e gamberetti) e due mango smoothies. Ci abbandoniamo poi al piacere dei caffè vietnamiti, stavolta nella versione con latte di cocco condensato. L’incipit di una sorta di storia d’amore.
La città è più vibrante che caotica. Le mancano la fretta instillata dal terrore dell’improduttività che la renderebbe soverchiante e stressante come ci si aspetterebbe da una delle più grandi metropoli del Sud-Est (la popolazione della capitale Hanoi ha meno della metà di popolazione). I motorini come globuli che pompano nelle arterie, i semafori a dettare il ritmo cardiaco che ha un che di ondivago, come un macrorganismo che si muove all’unisono in forme di coordinazioni tanto sofisticate da sfuggire a un primo sguardo o alla linearità della logica. Ovunque cibo, carabattole e umani impegnati in ogni sorta di attività.

Ho la tentazione di mangiare in ogni posto mentre camminiamo per il District 1, ma Alice mi rammenta che esplorare una città con questo clima è sfiancante già di per sé, senza scofanarsi zuppe, fritti e chissà che a ogni angolo. In effetti, al primo cucchiaio di phô si inizia a sudare. Il piccante amplifica l’effetto e spesso si rischia di grondare letteralmente sudore nella ciotola, finendo per allungare il brodo. Magari è previsto nella ricetta.
La città è ampia e ariosa, le strade hanno l’ordine coloniale e la monumentalità da regime, puntellate di bandiere rosse ornate da stella o falce e martello gialli, viali raffrescati da alberi maestosi. Questa zona di Saigon è inaspettatamente verde, gli edifici sono stretti e si sviluppano su più livelli, come se ad ognuno fosse assegnata una superficie così misera che l’unico modo per sfruttarla fosse crescere in verticale. Ogni tanto, incistati nei tronchi muscolosi dei baanyan, sbucano tempietti rosseggianti dedicati agli antenati, trafitti di incensi come istrici fumanti, dove i fedeli depongono offerte per i propri avi. Tazzine di caffè traboccanti, lattine di birra, sigarette lasciate accese a consumarsi piano. I vietnamiti affollano i caffè, i ristoranti, i parchi. Anziane ci sorridono senza denti, e tutto scorre senza frenesia.

Il Museo della Guerra mostra gli orrori indescrivibili portati in dote dagli americani. Ripenso a McCarthy e a Meridiano di Sangue: una perfetta rappresentazione di come le fondamenta stesse degli Stati Uniti affondino nella violenza. La stessa che hanno esportato ai quattro angoli del globo e che qui in Vietnam ha per la prima volta incontrato la potenza amplificatoria dei nuovi media.
“La guerra perdura perché i giovani la amano e i vecchi la amano nei giovani. Quelli che hanno combattuto e quelli che non hanno combattuto”. Questo lo dite voi, rispose il nero. “Il giudice sorrise. Gli uomini sono nati per giocare. Nient’altro. Tutti i bambini sanno che il gioco è più nobile del lavoro. Sanno anche che il valore o merito di un gioco non sta nel gioco stesso, ma piuttosto nel valore di ciò che è messo in gioco. I giochi d’azzardo richiedono una posta per avere senso. I giochi sportivi coinvolgono l’abilità e la forza dei contendenti, e l’umiliazione della sconfitta e l’orgoglio della vittoria sono di per sé una posta sufficiente poiché pertengono al valore degli antagonisti e li definiscono. Ma, sia questione d’azzardo o di valore, tutti i giochi aspirano alla condizione di guerra, perché in essa la posta inghiotte gioco, giocatore, tutto quanto”.
Cormac McCarthy – Meridiano di Sangue

Alice ammette di avere un certo languore e tanto basta a individuare la soluzione in un’anziana che spadella sulla propria cucina mobile su carretto. Qualche gesto e ci fa accomodare, mentre probabilmente ci spiega in cosa consiste il menù. Annuiamo sorridenti, come se il vietnamita fosse la nostra madrelingua, e lei torna ai fornelli soddisfatta. Man mano che spignatta, gli ingredienti arrivano come per magia in una processione di collaboratori che lei sembra convocare con la sola forza del pensiero. Un carrettino può essere più efficiente di una cucina stellata se è inserito nella giusta rete, e una strada di Saigon sembra precisamente il luogo in cui può apparire qualsiasi cosa. Ci serve infine due scodelle di noodles secchi, piccanti al punto da farci sudare, di cui siamo in grado di riconoscere forse un paio delle decine di ingredienti. A metà si unisce al pranzo una signora. Siede al minuscolo tavolino di plastica blu, dice qualcosa come ad accertarsi di non disturbare, e non appena riceve la sua scodella risucchia implacabile i noodles.

C’è poi un altro innamoramento. Il Cà phê Linh è un fiero oppositore del progresso rapace e appiattente, dei locali industrial tutti ugualmente insipidi, dei menù creati in ufficio marketing. Un caffè storico, fondato nel 1975, ospitato in un edificio d’angolo completamente in legno su due piani e ricoperto di vegetazione. Ci lavorano solo giovani, quasi tutti maschi, con uno stile un po’ emo-punk fatto di strane capigliature, abiti oversize, tatuaggi, strette di mano. Il locale sembra sorto per aggregazione, l’opera di un carpentiere allucinato, un pezzo di legno recuperato alla volta in un processo che continua inesorabile. Al piano superiore uno stretto terrazzo circonda il caffè. Da lì si può osservare il traffico scorrere mentre si sorseggia un caffè al cocco e piccoli nebulizzatori spruzzano acqua che i ventilatori spargono per offrire un po’ di refrigerio. Non servono cibo, quindi ognuno può portarsi il proprio.

Quando cala il sole e l’afa allenta la sua presa, la città emerge con una rinnovata energia che sembra pervadere ogni cosa. Tutti sembrano riversarsi per strada, gente di tutte le età si allena nei parchi, il cibo sbuca ovunque a diffondere profumi e clangori, bar scintillano in cima ai tetti di palazzi fatiscenti. La cena si fa itinerante, assaggiando qui e lì finchè non siamo sazi. Sulla via del ritorno incappiamo in un locale specializzato in gelato al cocco. Che fai, te ne privi?

Prima di rientrare in hotel torniamo al Cà phê Linh. Il marciapiede è invaso di seggioline in plastica e a noi ne assegnano quattro, due per sederci e due da usare come tavolino. Birra Saigon ghiacciata e musica vietnamita – contemporanea, forse il pop locale – circondati da uno stuolo di giovani che beve, mangia, fuma. Uno dei camerieri ci riconosce e noi ci abbandoniamo a quest’atmosfera magica che proprio non sospettavo di trovare qui.

28 gennaio 2023 | Saigon, Ben Tre
Dormiamo fino alle undici, costringendoci a preparare i bagagli in fretta per liberare la stanza. Facciamo colazione da Phô Thình, che completo con un báhm me raccattato per strada.
Osservo che qui in Vietnam le persone leggono. La gran parte degli avventori dei caffè se ne sta a sorbire la propria bevanda con un libro spalancato. Mi chiedo quanto la diffusione della lettura abbia a che fare con la storia di un paese, se esista una correlazione diretta tra violente oppressioni e la libertà e la resistenza mentale a cui educa la letteratura. Come se leggere fosse il miglior antidoto per non ricascare in certe trappole. Leggere per crearsi un nucleo inaccessibile, uno scrigno inattaccabile in cui rifugiarsi, un sostegno a tenere sempre la schiena dritta, a riconoscere i soprusi, a lottare per valori non tangibili. Per guadagnare nulla che non sia la libertà.
Un Grab ci porta alla stazione di Thao Chau, da cui un bus ci condurrà a sud, nel delta del Mekong. Si tratta di una delle zone più fertili al mondo, il centro agricolo non solo del Vietnam ma dell’intero sud est. Un reticolo sterminato creato dalla frammentazione del fiume.

Accanto alla stazione c’è una minuscola bottega di sartoria. Una delle donne se ne sta alla propria macchina da cucire Singer direttamente sul marciapiede, forse preferisce la luce naturale. In qualche modo riusciamo a chiederle di aggiustare un paio di shorts in denim di Alice, lavoro che svolge egregiamente.
Mentre il bus lascia Saigon per addentrarsi nel delta, iniziamo a notare la quantità di persone deformi, doloroso memento dei danni che l’agente arancio sparso dagli americani continua a produrre. I ponti si susseguono, alcuni su tratti del fiume ampi centinaia di metri e solcati da un intarsio di imbarcazioni. La nostra destinazione è tra una fermata e l’altra, così controlliamo sulle mappe il punto più vicino e ci facciamo scaricare in corsa. Manca ancora qualche chilometro che non abbiamo idea di come coprire. Dal flusso ininterrotto di motorini si stacca un ronzante trabiccolo guidato da un signore anziano. A gesti ci fa capire che può portarci, così gli mostriamo l’indirizzo. Quando nota la dimensione dei nostri zaini, ferma un altro motorino, convince il guidatore a farsi qualche soldo, e poi ci avviamo, con Alice e io che sembriamo i gusci di queste lumache su due ruote. Fortuna ci siamo affidati ai motorini, altrimenti l’ultimo tratto di strada, poco più di un camminamento che attraversa le risaie e i campi allagati dalle piene, avremmo dovuto farlo a piedi.
L’homestay Hong Thai è adagiata sulla sponda del fiume. Alcuni bungalow su palafitte e un’ampia zona comune sotto una tettoia di legno e foglie di palma. Gustiamo una Saigon mentre il fiume si tinge di rosa man mano che il sole cala. Gli unici altri ospiti sono un terzetto di americani della celebre contea di Humboldt, California. In sostanza, il centro di produzione di erba negli USA, ben prima che diventasse un business legale. Ci raccontano di come la legalizzazione abbia letteralmente ucciso la contea appartenente al cosiddetto Triangolo di Smeraldo, dove la geografia fisica permise per decenni di produrre marijuana standosene nascosti nelle montagne. Quando fu legalizzata, all’inizio riuscirono a ottenere una sorta di monopolio, prima che il mercato si allargasse e la competizione impoverisse tutti. Humboldt sta morendo. I ristoranti e gli hotel chiudono, le farm pure. Manca qualsiasi prospettiva e possibilità di reinventarsi, così non resta che andarsene. La rabbia verso il governo, che è percepito come tutto tranne che democratico. La consapevolezza di appartenere a un sistema economico fondato sulla guerra e sulle menzogne per perpetrarla. Il senso di colpa, ammettono, è ciò che li ha condotti in Vietnam. Quando vedono una persona deforme per strada si sentono responsabili, dicono.