Dispacci dall’Indocina #10 - Vagabondare filippino tra giardini, castelli e squali
- Alvise Bortolato
- Dec 16, 2024
- 19 min read
Updated: Dec 20, 2024
“Mesi e giorni sono sempre di passaggio: gli anni che ci inseguono sono ugualmente dei viaggiatori. Colui che su una barca voga per l vita intiera, colui che – con la mano che tiene il morso del cavallo – se ne va davanti alla propria vecchiaia giorno dopo giorno, del viaggio fa la sua tana. Fra gli antichi, del resto, numerosi furono quelli che si spensero mentre erano in viaggio. E io stesso non ricordo nemmeno quando, come un lembo di nuvola che cede all’invito del vento, non smetto di nutrire pensieri vagabondi.”
Basho Matsuo Manefusa – Journal 1644-1694
18, 19 gennaio 2023 | Panglao
Alle sette del mattino il pontile affollato è immerso in una luce che cresce d’intensità. É soltanto quando il cassiere stacca il biglietto con un’espressione scocciata che tiriamo un respiro di sollievo. Il viaggio continua, dopo una notte imprevista bloccati a Siquijor. La lunga trafila di controlli per salire a bordo sembra esistere più per creare occupazione che per effettiva utilità. Quasi tutti sgranocchiano snack e sorseggiano bibite gassate o caffè istantaneo. Un flusso ininterrotto di zuccheri raffinati penetra nei filippini, contribuendo a favorirne il decadimento cognitivo e fisico. Una dipendenza coltivata fin da piccoli, inserita in un’ampia strategia di “fidelizzazione” dei consumatori da parte delle aziende occidentali.

Le successive due ore trascorrono nel ventre metallico del traghetto reso gelido dall’aria condizionata. Il caos di persone e oggetti che si accampa su file di sedie di plastica ancora ordinate soltanto perché imbullonate al pavimento.
Sbarcati a Tagbilaran City con gli zaini in spalla siamo come lampioni per falene. Sul pontile è un assalto di tassisti e guidatori di tricicli. Il primo ci propone 700 pesos (circa 10€) per il taxi, senza nemmeno chiederci quale sia la meta. Lo ignoriamo. Il secondo ci cammina di fianco auto-contrattandosi il prezzo di un triciclo da 500 a 400 pesos senza che nessuno gliel’abbia chiesto. Usciti dal porto, ci rivolgiamo al primo autista che, placido sul suo trabiccolo, non ci viene incontro. Chiede 300 ed è alle spalle della sua sgargiante t-shirt arancione che attraversiamo l’isola di Panglao fino al nostro hotel. Bassa – così pare chiamarsi online, anche se per ora non c’è alcuna insegna – è ancora in costruzione. Il che spiega i prezzi bassi, nonostante la camera sia spaziosa e fornita di tutti i comfort. Nei piani finali sarà un hotel a quattro stelle, con tanto di piscina curvilinea e arredi di design. Per ora ci godiamo l’affaccio sul cantiere e i suoi clangori, con gli operai che pranzano assieme seduti in cerchio sui materiali edili.

Al tavolo accanto al nostro, in una eatery lungo la strada, due uomini discutono studiando mappe catastali, planimetrie, bozzetti. Indicano con le dita, annuiscono, srotolano altri fogli attraversati da linee colorate. Immagino siano costruttori e li vedo trasfigurati, forse anche per i danni che la categoria ha inferto alla terra da cui provengo. Mi sembrano affamati, ma non si tratta del cibo che spiluccano a malapena. Hanno lo sguardo acceso di quel bagliore sinistro che hanno i predatori quando sentono che la preda è vicina. Quando gli sforzi, gli inganni e le furbizie convergono verso il momento in cui si convertiranno in profitto. E poi? E poi ancora e ancora e ancora, come se tutto fosse infinito, pure il loro tempo su questa terra.
Per quanto ho osservato finora, le Filippine rischiano di venire travolte dalla speculazione immobiliare selvaggia. Si tratta del paese del sud-est che cresce più rapidamente in termini di PIL, ma il turismo è ancora poco sviluppato (rispetto ai vicini) e, per ora, una serie di ostacoli burocratico-amministrativi tende a scoraggiare i capitali esteri. Se il governo deciderà di semplificare, spalancando le porte a forme di liberismo più o meno rapaci, le dighe si romperanno e l’arcipelago potrebbe venir travolto da una colata di progresso cementizio.

Un esempio lampante lo offre Alona Beach, dove resort, ristoranti e baracchini hanno gradualmente accerchiato la spiaggia tropicale fino a soffocarla di raffazzonata bruttezza. In più, è come se trasudasse una certa idolatria verso un’idea di Occidente, stereotipica e americana, che va ben oltre lo sforzo di accaparrarsi clienti. È come se certi locali, con le loro reclame su lavagne e cartelloni piazzati all’ingresso e i butta-dentro assatanati, gridassero: “vogliamo essere come voi perché non c’è nulla di meglio”. Se solo sapessero il vuoto umano che si cela dietro il luccicare del progresso, se solo sapessero qual è il costo spirituale del benessere materiale.
Un ampio arcobaleno si staglia all’orizzonte mentre il sole accelera la discesa verso la superficie del mare e sulla battigia le persone si fotografano a turno in bizzarre pose incorniciate dall’arco multicolore.
C’è qualcosa di poeticamente ipnotico nella luce al crepuscolo filtrata dal fumo che si leva dai cumuli di monnezza bruciati lungo la strada. Come un tessuto che sfibrandosi rivela il mondo.

Ordinare un Mango Sticky Rice in un paese diverso dalla Thailandia è, con rarissime eccezioni, un viatico per la delusione. Eppure, non ci si rassegna.
Nelle peregrinazioni in sella al motorino tra insediamenti affollati e spiagge deserte, scorgiamo lungo la strada un giardino ingombro di piedistalli su cui svettano sofisticati bonsai. Accosto e non faccio a tempo a spegnere il motorino che un signore sbuca sorridente, il viso cotto dal sole e un cappellino di un rosso sbiadito sulla testa calva. Le barriere linguistiche non mancano ma Mario, assieme al suo aiutante, ci spiega che è un appassionato coltivatore di bonsai. È sinceramente entusiasta del nostro interessamento. Alcune piante le accudisce da prima che io nascessi. Ci mostra le foto dei pezzi che ha esposto in giro per le fiere di mezza Asia, e ci parla di un collega italiano di Belluno. Ancora una volta, l’intrico del mondo rivela connessioni insospettabili. Da quest’incontro iniziamo a notare l’elevata cura che gli abitanti dell’isola hanno per i propri giardini.
La nostra esplorazione ci riporta sulla costa di Panglao. Lasciamo il motorino nel parcheggio di un resort diroccato, difficile dire se sia ancora in attività. Le camere sembrano tutte vuote, ma gruppi di filippini si sono insediati sui tavoli ci cemento protetti dagli ombrelloni e, coi piedi sulla sabbia, li hanno imbanditi di leccornie, bottiglioni di bibite gassate, thermos di caffè, giocattoli. La musica gracchia da speaker portatili accompagnata da un vociare allegro, risate, bambini che strillano.
Percorriamo la spiaggia con le nuvole che concedono sprazzi sempre più frequenti da cui fa capolino il sole. La sabbia bianchissima, l’acqua cristallina, le palme, le barche placide appena oltre il limitare del reef, lì dove l’acqua si fa d’improvviso più scura.

Fu anche da queste coste che i Negritos filippini, che vivevano qui da 25000 anni, videro per la prima volta le imbarcazioni europee. Il loro mondo stava per venire travolto, la traiettoria del destino di quel popolo sarebbe cambiata per sempre. Fu nel 1521, 501 anni fa, e se lo sappiamo è grazie ad Antonio Pigafetta. Sorta di cronista di bordo della spedizione di Ferdinando Magellano, il vicentino scrisse la Relazione del primo viaggio intorno al mondo. Proprio nel 1521, in navigazione dopo che Magellano era morto nella battaglia di Mactan, poco dopo aver bruciato una delle tre navi per insufficienza di equipaggio, costeggia l’isola di Panglao (Panilonghon) e osserva:
«Lungi disdotto leghe de questa isola Zubu, al capo de quell'altra, che se chiama Bohol, brusassemo in mezzo de questo arcipelago la nave Conceptione per essere restati troppo pochi e fornissemo le altre due de le cose sue migliore. Pigliassemo poi la via del garbin e mezzodì costando la isola, che se dice Panilonghon, nella quale sono uomini negri, come sono in Etiopia.»
Mi chiedo se quel primo incontro, quando due mondi si scoprono reciprocamente, avesse lasciato presagire a qualcuno la successiva scia di sangue e dominazioni e ribellioni che le Filippine avrebbero vissuto da quel momento in poi. I bianchi se ne andavano sconfitti, ma tornarono portando la guerra e le sue crudeltà a un livello che l’arcipelago non aveva ancora visto, nonostante secoli di co-esistenza non sempre pacifica tra le varie tribù.
Mi chiedo anche come vivrebbero qui, se quei primi tentativi occidentali di imporre il proprio modello di sviluppo non avessero attecchito.

Il cielo si scurisce e le nuvole si fanno dense e pietrose come macigni sospesi e fluttuanti. Raggiungiamo appena in tempo una eatery e pranziamo con lentezza mentre un muro d’acqua cade oltre il limite della tettoia in lamiera. A guardare il nostro motorino sul ciglio della strada pare di averlo parcheggiato sotto a una cascata.
A Panglao, stando alla Lonely Planet, c’è la Bohol Bee Farm. Ne parlano come un’attrazione irrinunciabile. Da amante delle api, di cui da anni ospito una colonia in un’arnia in giardino, mi lascio incuriosire. Ci ritroviamo in una struttura – questa sì a misura esclusiva di turista – che è un susseguirsi di ristoranti, caffè, negozi. Un’area è dedicata all’hotel. Tutto abbastanza curato, con prezzi decisamente alti. C’è un dettaglio, tuttavia, non trascurabile: non ci sono api. Nemmeno un’arnia come contentino, nulla. Non appena lo appuriamo, inforchiamo il motorino e ce ne andiamo.

20 gennaio 2023 | Panglao, Bohol
Nonostante il clima abbia la stessa stabilità di un ubriaco con la labirintite che tenta di percorrere una slack-line, non vogliamo rinunciare al tentativo di raggiungere le Chocolate Hills, nell’entroterra di Bohol. Ci vogliono almeno un paio d’ore stando al navigatore, le soffici colline si trovano nel centro esatto dell’isola.
Abbandoniamo Panglao attraversando il ponte che la connette a Bohol e lasciamo il paesaggio costiero addentrandoci nel verde. La luce del mattino cresce d’intensità, anche se le nuvole accorrono a smorzarla. Tra le fronde degli alberi sbucano colonne di fumo in pinnacoli turriti trafitti dal sole. Qualcosa brucia, celato dalla foresta. La sovrabbondanza vegetale quasi opprimente che tenta di inghiottire la strada, le casupole, gli appezzamenti coltivati. È come una ventosa primordiale che si attacca al cervello e lo risucchia in tempi ancestrali, a sentire sulla pelle la minaccia e al tempo stesso l’accoglienza della natura.

Inizia a piovere e, con la scusa di estrarre gli impermeabili, ci fermiamo per un caffè. Le speranze che sia uno scroscio passeggero si sgretolano quando, mezz’ora dopo, l’intensità non accenna a diminuire. Seduti a un tavolino protetto da una tettoia, con il rimbalzo della pioggia sul marciapiede che ci schizza le gambe, esercitiamo l’arte asiatica della pazienza e della simbiosi con il clima tropicale. Mancano 30 km alle colline, ma non possiamo affrontarli così. Significherebbe rischiare di trovarsi a oltre due ore e mezza di strada dall’hotel, fradici su un motorino. Abortiamo la missione e ordiniamo un altro caffè.
Ripieghiamo sul Santuario dei Tarsi per una sosta sulla via del ritorno. La pioggia non ci abbandona un istante. Le minuscole creaturine socchiudono a malapena gli occhi sproporzionati quando le guide li scovano per noi tra i rami. Di giorno dormono, e sembrano completamente indifferenti a noi e ai turisti che li puntano con teleobbiettivi per immortalarli in foto con risoluzioni che permetteranno di contarne i peli sul muso.
21 gennaio 2023 | Panglao, Bohol, Ubay
A osservarle con calma, le gocce di pioggia sembrano perle che saltellano sulla superficie dell’acqua. Sfere luminose che emergono dagli abissi per guizzare un paio di centimetri nell’aria prima che la gravità le riconsegni al resto dell’oceano.
Gradualmente mi sto alleggerendo di paia di calzini bucati, mutande strappate, magliette ammuffite. Sembianze di un mondo oramai lontano, che l’impatto con l’atmosfera di questo nuovo pianeta ha finito per disgregare in breve tempo. Scorie e detriti, pezzi di muta da abbandonare lungo la via. Lasciarsi indietro il superfluo è un balsamo.

“Gli uomini vanno fuori, per nascere: rientrano, per morire.”
dal Tao-Te-Ching
Tempo di ripartire, con un triciclo, per la stazione dei bus. L’autobus taglia Bohol da ovest a Est, tra strade tortuose che si inerpicano nella foresta e aree rurali ricamate di risaie. A bordo siamo gli unici non filippini, che a me sembrano gente tranquilla e amichevole. Alice mi racconta invece che, nell’unica passeggiata in solitaria che si è concessa ieri pomeriggio, l’hanno importunata più o meno ad ogni passo. Temo la mia percezione sull’indifferenza dei filippini al mio passaggio dipenda soprattutto dal mio essere un maschio bianco con stazza superiore alla media locale. Sul ciglio della strada i contadini passeggiano conducendo imponenti bufali d’acqua assediati dalle mosche. Passiamo anche per le Chocolate Hills, rimediando all’insuccesso del giorno precedente prima di infilarci in strade sterrate trapuntate di buche la cui profondità è resa imprevedibile dall’acqua che le ricopre. Il bus sobbalza, scricchiola, si inclina sui lati tra gli sbuffi delle sospensioni.
Tre ore e mezza dopo siamo a Ubay. Domani prenderemo un ferry da qui, alla volta di Leyte. Ma perché Leyte, una delle isole meno battute dal turismo? La ragione principale è che vogliamo vedere gli squali balena. Per riuscirci basterebbe andare a Oslob, nella parte meridionale di Cebu, ben più comoda da raggiungere. Il problema è che, a Oslob, gli squali sono stati sostanzialmente addomesticati per renderli un’affidabile e perenne attrazione turistica. Vengono nutriti due volte al giorno dai pescatori, in modo da trattenerli nella baia. Per permettere ai turisti di infastidire il più a lungo possibile i pesci è disponibile l’opzione bombole d’ossigeno. Gli squali balena hanno perso i ritmi migratori naturali e sono trattenuti in una sorta di zoo a cielo aperto, con le barche piene di turisti che li inseguono a frotte su e giù per la baia.
Per evitare di partecipare alla questione, abbiamo optato per Padre Burgos, nella parte meridionale dell’isola di Leyte. Tre giorni di viaggio per raggiungere il posto, senza alcuna certezza di vedere gli squali. Lì, inoltre, è vietato immergersi con le bombole d’ossigeno, ergo si riesce ad avvicinarsi alle creature contando solo sui propri polmoni e sulle proprie capacità natatorie. In un mondo in cui la gente sale gli Ottomila himalayani arrivando in elicottero al campo base per poi ascendere con uno stuolo di sherpa, il Messner che conquista le stesse vette in solitaria e senza ossigeno è un barlume di autenticità nel rapporto uomo-natura.
Alloggiamo al Pacheco’s Inn, vicino al porto, un posto senza alcuna pretesa. Da un albero del parcheggio si levano in volo enormi volpi volanti che si disperdono nel cielo crepuscolare. Durante il check-in scopriamo che solo una colazione è inclusa e che se si vuole la doccia calda c’è un supplemento di 300 pesos. Oramai queste bizzarrie asiatiche mi lasciano indifferente, come se i mesi qui avessero ammorbidito – a suon di mazzate – la rigida logica occidentale.
Il centro di Ubay è invaso da un clima festoso. In una piazza centinaia di persone mangiano e bevono mentre dal palco cantano cover di pezzi pop. Dove ci fermiamo a cenare, la cantante del locale ci chiede da dove veniamo, facendosi portavoce della curiosità di tutti gli avventori. Siamo gli esotici italiani e i pochi che sanno qualcosa in inglese ci rivolgono qualche battuta. Il sizzling di gamberoni, che arriva ancora sfrigolante nel suo tegamino in ghisa, è forse la cosa migliore mangiata nelle Filippine finora.

22 gennaio 2023 | Ubay, Maasin
Anche questa domenica gronda pioggia su Ubay. Alice mi cede l’unica colazione inclusa, che ovviamente non prevede alcuna possibilità di scelta. Quando chiedo qualcosa nello scarno menù la risposta della ragazzina è sempre la stessa: “Sorry, sir. Not available.” Non sembra turbata quasi che il disservizio fosse la normalità.
Entriamo al porto previo pagamento di un’incomprensibile tassa portuale dall’importo ridicolo. La barca è deserta, i sedili strumenti di tortura in plastica ingiallita, la pioggia spazza il ponte. I passeggeri ridono e urlano sguaiatamente, forse domandandosi cosa ci faccia a bordo una coppia di occidentali.
Mentre inganno l’attesa rituffandomi nel Marocco di “Nella polvere”, realizzo che non ho mai visto un asiatico leggere un libro da quando sono qui. Nessuno, mai. Mi chiedo quanto leggere influisca sulla traiettoria di un popolo se, almeno per me, è decisamente capace di sconvolgere completamente l’esistenza di un individuo. Senza i libri che ho letto non sarei chi sono oggi, nemmeno lontanamente. Credo che nulla abbia influito su di me quanto la lettura.
“Ma prima o poi ci sarà una nuova generazione di giovani che svegliandosi dal torpore, nel quale il potere li ha intrappolati, rovisteranno nelle soffitte impolverate dei loro genitori e troveranno uno zaino e un sacco a pelo e a questo punto andranno “lungo la strada” a riprendere il cammino interrotto.”
Jack Kerouac

La barca si stacca finalmente dalla banchina di Ubay con 50 inspiegabili minuti di ritardo e copre il tratto di mare fino a Maasin, isola di Leyte, in 3 ore. Il tempo di sbarcare e avviarci lungo il pontile che il cielo si rompe e un diluvio si abbatte sul porto. Percorriamo 100 metri e siamo fradici: benvenuti.
Raggiunta una tettoia sotto la quale attendere assistiamo a una scena singolare. Una donna scivola fuori dal triciclo che la trasporta, ruzzolando fino a ritrovarsi seduta in mezzo alla strada. Le borse cariche di chissà cosa si aprono sull’asfalto viscido, sparpagliando e inzuppando cianfrusaglie indefinibili. Nessun lamento. Il guidatore si ferma qualche metro dopo.
Per un tempo indefinibile la donna resta lì, tastandosi la caviglia da cui sgorga sangue che la pioggia dilava, finchè due uomini la sollevano di peso per depositarla a bordo strada. Raccolgono i suoi averi, caricano tutto sul triciclo e ripartono.
Alla stazione chiediamo come arrivare a Padre Burgos e il miglior consiglio che ne ricaviamo è di prendere un bus per Maasin, il centro città e da lì cambiare. Ce lo indicano, nel marasma di mezzi di ogni sorta asserragliati tra i piloni di un cavalcavia. È una sorta di camioncino il cui cassone è stato adattato – ma nemmeno troppo – al trasporto di passeggeri. Ci si siede lungo le fiancate, su panche metalliche, curvati in avanti per il tetto basso, stipati fino a che è possibile senza che qualcuno cada fuori dal retro che viene tenuto spalancato. Dal tetto di lamiera piove dentro.
Sosta a Maasin per raccattare del cibo, prendere altra pioggia e saltare su un bus più scassato del precedente. Dopo qualche chilometro lungo la strada costiera la lamiera su cui viaggiamo inizia a vibrare. Abbiamo forato. Accostiamo sotto la pioggia e l’autista, aiutato da alcuni passeggeri, effettua un pit-stop in tempi da Formula 1. La nostra fermata è lungo la strada che taglia il paese di Padre Burgos in due. Scendiamo e raccattiamo un triciclo per coprire i 3 chilometri che ci separano alla punta estrema dove si trova il nostro hotel.

Il Castle Resort Hotel sembra un set hollywoodiano ammantato della decadenza tropicale a cui la stagione delle piogge conferisce un’aura tetra. Ci accoglie la proprietaria, Dalia, una donna sulla cinquantina la cui cura per il proprio aspetto cozza con l’atmosfera del castello. Sembra il personaggio di una telenovela. La camera prenotata non è pronta – anche se a occhio e croce siamo gli unici clienti – e ci rifilano quella in cima alla torretta del castello, con tanto di merlature fittizie, da cui si accede da una scala circolare che sale sopra la reception. La proprietaria si prodiga per assicurarci che sia una soluzione migliore di quella che avevamo prenotato.
Ceniamo soli nell’ampia sala rischiarata fiocamente, le finestre crivellate dalla pioggia scrosciante, i tuoni che fanno vibrare i vetri. Non ordiniamo, il cibo arriva e basta. Pesce grigliato e calamari in sugo, entrambi eccellenti. Non abbiamo idea di quanto costi la cena, ma la proprietaria ci rassicura che possiamo pagare tutto alla fine. Sì, ma quanto?
23 gennaio 2023 |Padre Burgos
La tempesta oltre le pareti della stanza è l’incipit di giornata. Ieri ci hanno avvisato che se ci sarà troppo vento la gita sarà annullata. Mentre mi rigiro nel letto penso che in realtà il senso di essere venuti fino a qui va ben oltre la meta etologica. Essersi spinti fino a questo angolo delle Filippine è stata una sfida all’assuefazione del tutto e subito, della velocità e dell’efficienza, del comfort e della sicurezza. Anche se non dovessimo vedere alcuna bestia, ne sarà comunque valsa la pena.
A colazione ci fanno firmare una liberatoria mentre fuori il mare è una danza ossessiva di onde spumose. Firmiamo per sollevare l’hotel di ogni responsabilità nel caso crepassimo in mare. Deduciamo quindi che la gita si farà.

Scendiamo alla baia assieme a una coppia di olandesi e poco dopo saltiamo a bordo di un’imbarcazione tradizionale in formato extra-large, con gli stabilizzatori che la fanno sembrare un enorme insetto acquatico. Attraversiamo la baia con le onde che fanno oscillare il natante finchè, raggiunta la costa opposta, ci ritroviamo sottovento e la navigazione si addolcisce. Il paesaggio è verdeggiante e il versante scosceso ospita piccoli insediamenti di pescatori che sembrano esser stati adagiati lì da mani di gigante. Dalla costa salpano minuscole barchette a remi – una versione in scala di quella su cui siamo noi – che gradualmente ci scortano. Sono gli spotter, pescatori che arrotondano aiutando i turisti ad avvistare gli squali balena. Nella baia, solo un altro paio di barche turistiche.
In pratica non si fa altro che gironzolare nella baia, quasi fosse un andare alla deriva, con gli spotter che si disperdono per coprire più area possibile, finchè qualcuno avvista uno squalo e tutti si precipitano. Qui è vietato usare le bombole e la possibilità di star vicino ai pesci è determinata dalla propria capacità polmonare e dalla voglia degli stessi di averci attorno.

Abbiamo fortuna, perché nelle tre ore seguenti riusciamo a vederne tre. Uno spotter urla, il capitano punta l’imbarcazione verso le grida mentre noi infiliamo maschera e pinne, la baia è attraversata da un fremito, un’enorme ombra si muove sotto al pelo dell’acqua e, quando la barca è abbastanza vicina, ci fanno segno di saltare.
Dalla confusione eccitata del mondo d’aria ci si immerge nel mondo liquido, i suoni si attutiscono e tutto rallenta come ad adattarsi al ritmo della creatura che scivola sinuosa sospesa sul basso fondale. La pelle puntellata in toni di blu che includono l’elettrico, la coda che oscilla possente in movimenti lenti e costanti. Trovarsi così vicini è un’emozione unica, e con Alice nuotiamo fino a sentire i polmoni scoppiare e i muscoli bruciare.
C’è un momento in cui mi trovo solo in acqua con uno squalo e per un po’ mi metto nella sua scia, ipnotizzato dai movimenti della coda. Osservo la pelle maculata, come la mappatura di un universo in cui le stelle si stanno via via raffreddando in fantasmagorici bagliori bluastri. Il linguaggio è cosa umana, una convenzione insufficiente a descrivere certe sensazioni. Qualcosa di preistorico e inconscio. Dopo essersi lasciati seguire per un po’, gli squali puntano acque più profonde fino a che il blu gli inghiotte.

Uno dei tre esemplari misura più di otto metri, stando alla stima degli spotters. Gli squali balena sono i pesci più grandi del mondo – il più grande vertebrato non mammifero vivente – e a me le bestie grandi sanno di arcaico, come qualcosa che è sopravvissuto a tempi in cui tutto era più imponente. L'individuo più grande mai confermato aveva una lunghezza di 20 metri. Vivono fino a 130 anni nutrendosi esclusivamente di plancton e piccoli pesci. Un esemplare adulto ne mangia circa 20 chilogrammi al giorno, il che lo rende particolarmente vulnerabile all’ingestione di microplastiche.
Dopo tre ore a seguire gli squali balena saltando su e giù dalla barca non abbiamo più energie. Ci rifocillano mentre ci apprestiamo a riattraversare la baia. Il cielo però si scurisce e arriva una tempesta. Una cortina d’acqua annulla la visibilità mentre il mare si insinua nella baia con maggiore intensità, il vento spazza il ponte e le onde ci rallentano. Assiepati sotto l’unica tettoia, capiamo che il capitano ha perso la rotta. C’è qualche minuto di preoccupazione mentre la barca procede senza che la costa appaia a offrirci certezze sulla direzione. Poi, la pioggia diminuisce, il profilo della terra torna a stagliarsi, aggiustiamo la rotta e rientriamo.
Ceniamo con un pesce fritto in black sauce e gamberi in salsa di cocco. Buonissimi entrambi. La dama del castello sa il fatto suo in termini culinari. Unici avventori della tetra sala dal sapore medievale tiriamo a indovinare il prezzo di quel che la signora ci propina senza nemmeno interpellarci.
24, 25 gennaio 2023 | Padre Burgos, Bato, Cebu
Beh, la castellana si rivela costosa al momento del check-out, ma l’emozione di aver nuotato con gli squali ha ripagato degli sforzi, anche economici. Ora inizia il rientro.
La stessa tratta in triciclo centro di Padre Burgos - Castello è raddoppiata. Il viaggio in bus fino a Maasin è un’alternanza di sole e rovesci che fanno piovere dentro per i buchi nel tetto di lamiera. Stavolta, a differenza dell’andata, il bagaglio ha un costo a sé stante. Bizzarrie d’Asia.
Nel secondo bus che ci porta a Bato, la luce meravigliosa del crepuscolo filtra da un drappo rosso che funge da tenda e immerge nella morbidezza i passeggeri man mano che il mezzo costeggia risaie e tratti di mare invasi dai riflessi scintillanti delle sue increspature.

Ad accoglierci sul lungomare di Bato c’è una sagra di paese. Gli adolescenti ai primi approcci, le famiglie in passeggiata tra le giostre, le tavole imbandite nelle piazze, tutti che mangiano ovunque. Peccato per i bambini che quando vedono un occidentale allungano la mano per chiedere l’elemosina. Una cosa priva di senso, che sembrano fare più che altro per sfida tra di loro. Anche perché spesso ci sono i genitori che passeggiano pochi metri dietro, pronti a redarguirli e a scusarsi con noi. Le luci, la musica, il senso di festa. Un’atmosfera per nulla dissimile agli analoghi nostrani.
Ci imbarchiamo sul ferry per Cebu poco prima di mezzanotte. Stranamente parte puntuale, ma poi ci ripensa, torna in porto dove restiamo attraccati per tre quarti d’ora prima di ripartire. Una distesa di letti a castello occupa il ponte coperto della barca e noi ci accampiamo sui nostri, osservando la moltitudine filippina che fa altrettanto, spesso in maniera ben più strutturata e caotica. Il viaggio, per via del mare grosso, si rivela più tosto delle aspettative. Sdraiato sulla branda, Alice accanto che dorme, cerco di bere meno acqua possibile pur di non rientrare nella latrina in cui ho percepito l’odore di urina più intenso della mia intera esistenza.

Sbarchiamo poco dopo le cinque, l’alba che si spande sul porto di Cebu. Saltiamo su un taxi fino al centro città, doccia necessaria e recuperiamo qualche ora di sonno. A mattina inoltrata gironzoliamo per Cebu sotto un sole inclemente il cui calore ammorbidisce l’asfalto. I mall all’occidentale spuntano come funghi, l’oasi climatica come esca per trovarsi risucchiati in un girone capitalistico di brand d’ogni sorta e cibo spazzatura. Mi vedo pure costretto a compare un paio di t-shirt dato che, oramai, quelle superstiti mostrano i segni dei chilometri percorsi, delle lavanderie a gettoni, di gocce o frammenti di cibo, di filamenti di tabacco precipitati ancora incandescenti. Siccome nel pomeriggio ho da lavorare, Alice compra un biglietto per Avatar 2.
Il centro di Cebu non è così diverso dai quartieri ricchi di Manila: una ripetizione di locali e brand dallo stile occidentale, o per meglio dire globalizzato. Un’estetica neutra, così priva di identità che, se le persone svanissero di colpo, sarebbe impossibile capire se ci si trova nelle Filippine o in qualsiasi altro luogo del mondo dove “lo stile di vita occidentale” è divenuto la cartina tornasole del proprio indice di sviluppo. Un piattume ripetitivo che produce una noia desolante. Questa strana e scimmiesca forma di progresso si mangerà tutte le differenze culturali, distrarrà sempre più persone riducendone l’intero orizzonte di senso a ciò che consumano.
26 gennaio 2023 | Cebu
Inizia il viaggio per Saigon, la prossima tappa. Per un’ampia serie di motivi non sono per nulla dispiaciuto di lasciare le Filippine. L’incertezza su cosa succederà al mio visto – scaduto da un giorno – ci costringe a recarci in anticipo all’aeroporto. In ognuno degli aeroporti filippini in cui ho messo piede ho chiesto agli addetti cosa fosse meglio fare, e la risposta è stata di non preoccuparmi che al massimo si paga un conguaglio corrispondente ai giorni in eccesso.
All’aeroporto Lapu Lapu – il re locale che, il 27 aprile 1521, sconfisse e uccise Ferdinando Magellano e i suoi uomini che erano sbarcati sulle sponde di Mactan per sottomettere le popolazioni locali al re Carlo V d'Asburgo, ritardando la colonizzazione sino al ritorno degli spagnoli nel 1565 – non succede nulla. Il volo per Manila è interno e il visto manco lo controllano.
Il volo è in ritardo di un’ora, ma il primo netto segnale che la giornata non sarà in discesa arriva quando, seduto sull’aereo poco prima del decollo, mi accorgo di aver lasciato gli occhiali da sole al tavolino del caffè poco prima degli imbarchi. Mi maledico, già che per me che sono una costante in patria, figurarsi ai Tropici.

A Manila, dopo esserci disfatti degli ultimi pesos, arriviamo all’immigrazione. Mi aspetto di poter pagare la fee, e invece mi comunicano che dovrò pagare il visto – scaduto da due ore – per intero (75€). In contanti. Ovviamente gli ATM sono solo all’ingresso dell’aeroporto quindi torno indietro di corsa, prelevo il cash, riaffronto la fila e i controlli, pago con l’ansia di perdere il volo, raggiungo Alice con cui arraffiamo del cibo e ci precipitiamo al gate quando l’imbarco dovrebbe essere già avviato. Invece i passeggeri ciondolano pigramente, mangiando, e gli assistenti di terra scrollano i telefoni da dietro il banco. Le ultime sensazioni nei confronti di questo paese non sono proprio positive.
“Mentre il nomade sta sempre in ascolto, il sedentario chiude le orecchie a tutte le voci.”
Marie-Magdeleine Davy
Quando finalmente decolliamo per Saigon è già mezzanotte, il ritardo superiore all’ora e, se dovessi affidarmi al mio umore, sarei abbastanza propenso a credere che non metterò mai più piede nelle Filippine.
“Sii felice, passante”
Sulla tomba, anonima, della stessa.