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Dilemma padano

  • Writer: Alvise Bortolato
    Alvise Bortolato
  • Apr 9, 2021
  • 6 min read

“Oggi siamo alla mancanza del limite e alla caduta della logica, sotto il mito del prodotto interno lordo: che deve crescere sempre, non si sa perché. Procedendo così, la moltiplicazione geometrica non basterà più ed entreremo in un’iperbole, che ho sintetizzato in un aforisma di tre versi:

In questo progresso scorsoio / non so se vengo ingoiato / o se ingoio”.


Andrea Zanzotto – In questo progresso scorsoio. Conversazione con Marco Breda





Contemplo la distesa dei campi arati intervallata da esigui filari di alberi spogli a segnalare i fossi. È marzo inoltrato. Nel corso della mia vita, quando qualcuno di città ha scoperto che vivo in campagna, mi sono sentito spesso ripetere che “sono fortunato a stare nella natura”. Ho sempre concordato.

Ora guardo i colori della campagna mentre l’inverno finisce, e di natura non c’è traccia. Le scarse forme arboree sono disposte artificiosamente. I pesticidi e le arature hanno privato la terra del pullulare di organismi che la rendono viva.

Non è una novità: la foresta planiziale che ricopriva la Pianura Padana è stata spazzata via millenni fa per far posto ad insediamenti che, gradualmente, hanno addomesticato la pianura per renderla produttiva. Deforestazione, bonifiche, modifiche al corso dei fiumi, edilizia selvaggia. Una volta qua era tutta campagna, dicono i vecchi guardando le periferie, l’hinterland padano, che divora terreno per piazzarci condomini e capannoni identici in tutta la Pianura. E ora?


Ora, a vederla da un punto di vista naturale, la Pianura mi appare sempre più come un deserto mascherato. Se di colpo svanisse tutto ciò che è stato edificato dall’uomo (cemento, mattoni o asfalto) rimarrebbe una distesa desertica. Ma questo è anche un laboratorio in cui osservare – non in quanto scienziati ma, ahimè, in quanto cavie – gli effetti del costo del benessere fondato sulla produzione.


La sensazione del dilemma padano è quella di sentirsi in trappola tra benessere materiale e malessere fisico. Da un lato la tendenza – innata o sociale che sia – a desiderare di stare meglio, e l’aver legato l’idea di star meglio alla ricchezza materiale. Dall’altra, la consapevolezza che questo modello è tossico – nel senso che ha intossicato l’ambiente in cui vivo – e che perpetrarlo (o anche solo viverci passivamente all’interno) significhi accelerare la propria morte e quello della vita che c’è da queste parti, umana e non. Ecco il deserto che avanza, e ogni atto di consumo aggiunge sabbia.


Nella Pianura Padana e in particolare in Veneto, nella seconda metà del secolo scorso, accadde un miracolo che fu solo in parte economico. Un popolo di contadini emigranti, da sempre grandi lavoratori, si trasformò in un popolo di industriali e imprenditori. L’unico credo: fare i schei. Ancora Zanzotto:


“A un certo momento però è penetrato, almeno nel Veneto ma non soltanto qui, uno spirito nuovo e, come dire?, esterno. La gente non si sentiva più legata da alcuno spirito di comunità. E gli ex poveri, in parecchi casi rimasti indigenti culturalmente, si sono chiusi in sè stessi, concentrati solo a rincorrere il proprio riscatto e a fare quattrini. Con l'ambizione di metterne insieme una montagna, a qualunque prezzo.”


E, in effetti, gli ultimi sessant’anni hanno visto montagne di soldi accumularsi in Veneto. Già, ma a che costo?

Il progresso scorsoio di cui parla Zanzotto ha devastato il territorio, sia da un punto di vista ambientale che estetico. Un esempio tra tutti: l’aver costruito il petrolchimico a Marghera, così da renderne obbligatoria la vista per chiunque entri o esca da Venezia lungo il Ponte della Liberta. Petrolchimico le cui guglie si stagliano all’orizzonte di chiunque cerchi di osservare il tramonto dalla Giudecca. Marghera è in cima alla triste classifica dei tumori in Italia e nella provincia di Venezia l’87% dei tumori denunciati è correlato al settore metalmeccanico.

E il peggio, con ogni probabilità, deve ancora venire a galla. Per le PFAS nel vicentino, ci sono voluti vent’anni (di insabbiamenti) per informare le persone che l’acqua che usciva dai loro rubinetti li stava avvelenando, perché un’azienda tagliava così i costi di smaltimento.

Discariche abusive piene di rifiuti tossici che covano sotto i nostri piedi come bombe ad orologeria imprevedibili. Gli allevamenti intensivi, i distretti della concia della pelle, le monoculture. Da queste parti, l’industrializzazione di ogni attività produttiva ha considerato l’ambiente come un fattore per aumentare i profitti: scaricandoci dentro i costi economici e ambientali della produzione e dello smaltimento dei rifiuti.

Il Veneto è la prima regione per consumo di suolo annuale, seguito dalla Lombardia. Ogni anno circa 1000 ettari destinati all’agricoltura vengono sommersi da cemento. Più si costruisce, meno c’è verde e meno assorbe il calore e l’inquinamento. Col risultato di consumare ancora di più per refrigerarsi o riscaldarsi. L’aria è tra le peggiori d’Europa e del mondo, costantemente sopra i limiti di legge. Aggiungeteci l’inquinamento luminoso e sonoro che si produce in un’area densamente popolata come questa.


In sostanza abbiamo immesso per decenni veleno nello stesso ambiente che ci fornisce cibo, acqua, aria. Ci stiamo suicidando a scoppio ritardato. Ma non uccidiamo soltanto noi stessi. La fauna selvatica è sostanzialmente scomparsa e il reticolo di strade unito al numero di auto che lo percorre contribuisce a rendere l’hinterland una trappola mortale. Aggiungeteci i gatti. Aggiungete i rifiuti che permettono a specie di proliferare e di far estinguere le altre. Dove vivo i corvidi hanno spazzato via la quasi totalità dei passeriformi.


Ecco perché a vivere qui mi trovo di fronte ad un dilemma: come oriento le mie scelte di vita nel disastro ecologico in cui è immersa? Continuo a perseguire il modello della crescita continua (più cose, più consumi) sperando che la soddisfazione mi permetta di ignorare di vivere in un ambiente che mi uccide chissà quanto lentamente? Lascio a briglia sciolta il mio desiderio di avere sempre di più (non di meglio) per ritrovarmi a fine corsa ad aver unicamente contribuito al deserto che mi inghiotte? O inizio a farmi le fatidiche, odiose e dolorose domande: che contributo voglio dare col mio passaggio su questa Terra? Quale vuole essere la mia traccia, in un universo in cui ogni cosa influenza inevitabilmente tutte le altre? L’avidità? L’aver contribuito a perdere la partita decisiva della sopravvivenza della nostra specie in una crisi ecologica? Se prendere è necessario, che significato ha il dare?


Significa fronteggiare la sensazione che con la propria esistenza – e le sue vanità e i suoi desideri – si contribuisca a tutta questa distruzione di vita, di bellezza. Viene voglia di andare a vivere in una capanna nei boschi a vivere di bacche, vero?

Significa accettare che le nostre conoscenze sul mondo sono inevitabilmente difettose e, oltretutto, sono spinte alla superficialità perché è rassicurante e non contribuisce a cambiare lo status quo.

Prendete Seaspiracy: chi l’avrebbe detto che mangiare pesce avesse l’impatto che ha. E ora col sushi come la mettiamo? Ci si incazza, per fortuna, e quella rabbia va covata come un fuoco segreto. Si impara che cambiare le cose è un processo lento perché è basato sulla conoscenza progressiva di tutti, ma che in primis comporta cambiare sé stessi ed è sempre una cosa tremendamente difficile e faticosa.


Significa la consapevolezza che i nostri padri e i nostri nonni, nel creare tutta questa ricchezza, abbiano anche firmato un’ipoteca sul futuro che suona come una condanna a morte.


È tutto perduto? Io non credo, tra le cose che mi infondono più fiducia c’è la capacità della natura di rigenerarsi appena allentiamo un po’ la presa. È stata evidente la differenza durante il lockdown dello scorso marzo.

Si può salvare capra e cavoli? Continuare ad avere un certo tenore di vita e abbassare realmente la propria impronta? Non lo so ma temo di no, almeno non per quello che ne sappiamo ora. Penso sia una ricerca di equilibrio, un processo graduale e personale che può avere impatto se amplificato su larga scala.

Immaginate, ad esempio, se ci fosse una legge che per ogni metro quadro di suolo edificato esigesse l’esatto corrispettivo in superficie alberata nello stesso comune. Pari passu.

Qualcuno a modo suo ha già cominciato, in un ibrido poetico tra industriale leader europeo delle spugnette in vetro ed eco-guerriero che poteva nascere solo in Veneto.


Certo, siamo molto in ritardo. Se la crisi climatica fosse un treno, noi ci siamo seduti sulle rotaie ad aspettarlo da quando era un suono indistinto in lontananza. Ora è un bel po’ che lo vediamo avvicinarsi, eppure sembriamo incollati alle rotaie. Più passa il tempo, più la nostra reazione sarà istintiva e disorganizzata, l’opposto di ciò che serve per fronteggiare una situazione simile.


Se vogliamo avere un futuro migliore della direzione cui sembra tendere, dobbiamo iniziare a

immaginarlo e a plasmarlo. Proprio ora che la primavera giunge per occultare il deserto.


“C’è un volano infernale che gira ed esaspera una certa idea di onnipotenza, una rivoluzione che invade i pensieri e che inquieta e alla quale bisogna opporre resistenza.”

Andrea Zanzotto – In questo progresso scorsoio. Conversazione con Marco Breda


Articolo pubblicato l'8 aprile 2021 su www.wradliving.com

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