Del lavoro come religione e della retorica contro i giovani miscredenti
- Alvise Bortolato
- Apr 27, 2022
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Mi pare che, anche a seguito degli squassamenti che gli ultimi due anni hanno prodotto nel mondo del lavoro, ci sia un accentuarsi di questo ‘conflitto generazionale’ sull’approccio al lavoro.
Al di là delle classiche personalizzazioni all’italiana – Fornero con i ‘choosy’, gli chef Borghese e La Mantia, gli imprenditori di turno che lamentano la mancanza di personale –, il fenomeno è di ben più ampia portata (vedasi Big Quit). A quanto pare, la generazione dei Baby Boomers non sopporta che la propria discendenza abbia un approccio al lavoro diverso dal proprio, non a caso questa retorica viene brandita quando i giovani rifiutano le stesse condizioni della generazione precedente (e su cui, di base, si regge il sistema).
Mi sono chiesto cosa ci fosse alla base di questa ‘rabbia boomer’, e la risposta che mi sono dato è che si tratta soprattutto di paura. Sarebbe troppo semplice pensare che la paura sia legata al crollo dell’economia o del sistema previdenziale (se i giovani non lavorano come muli e l’economia non cresce, chi paga le pensioni e i servizi?). Mi pare si tratti di un terrore più profondo e radicato, un terrore esistenziale.
Nel rivendicare – spesso perverso – il proprio carico di lavoro strabordante, nell’esaltare lo stress, l’ auto-compiacenza del proprio usurante spaccarsi la schiena fino ai burnout psico-fisici, nel brontolare che, addirittura, i giovani non siano disposti a lavorare gratis per fare esperienza né a sacrificare tutto per il posto fisso, nel rifiuto a riconoscere la differenza tra arricchimento reciproco e sfruttamento, c’è un vecchio modo di intendere il lavoro che lotta strenuamente per non soccombere.
Una visione figlia del fatto che il lavoro si sia, di fatto, sostituito alla religione, alla famiglia e ai partiti politici con le loro utopie sociali, con una conseguente retorica volta a convincere che il lavoro possa colmare e soddisfare il vuoto di valori lasciato da queste cose. Una forma di fede nella correlazione tra (duro) lavoro e benessere (materiale). La dimensione escatologica del lavoro come realizzazione superiore ad ogni altra, che tanto è lecito trascurare famiglia, passioni, cultura, etc etc se si guadagna molto. Si è giustificati perché il denaro è il valore sommo, indipendentemente da come lo si sia ottenuto. Alla generazione post-boom bastava vedere il proprio patrimonio crescere (a volte bastava anche la promessa che sarebbe stato così) per accettare una vita di sacrificio totalizzante al lavoro.
Peccato che per le generazioni successive, nate senza dubbio in un contesto di maggior benessere, quel sacrificio sia sempre meno attraente. La ricchezza materiale – ammesso abbia mai davvero avuto a che fare col duro lavoro, e non fosse retorica furba anche quella – ha perduto il proprio fascino e la capacità di orientare le esistenze in maniera assoluta. É un problema di fede che si traduce nel rifiuto di una consacrazione più o meno totale al lavoro, in cui riversare tutte le proprie energie e il proprio tempo, per alimentare un sistema (quello capitalistico) che ha bisogno di devozione cieca e assoluta.
L’idea che la pandemia bastasse a instaurare un modo diverso di approcciare al lavoro (più fluido e meno vincolante, più qualitativo e meno quantitativo) si è infranta contro le resistenze prodotte dal terrore.
Gli adulti non sono preoccupati che i giovani non abbiano voglia di lavorare. Hanno il terrore che i giovani siano in grado di dimostrare che una vita non lavoro-centrica sia possibile. Che si possa mettere al centro dell'esistenza il tempo di qualità. Che, forse, tutto il sudore e i sacrifici, non fossero un gioco che valesse la candela. Che fosse ‘sfruttamento’, non ‘investimento’. Che il luccichio promesso non ripaghi una vita a spezzarsi la schiena per accumulare patrimoni. Non in quei termini. Insomma, che esista un’alternativa alla vita di sacrificio in nome del Capitale che hanno vissuto loro. Perché se per puro caso ci si dovesse accorgere che la vita può essere vissuta e goduta largamente anche prima del miraggio ‘pensione’ (per altro ora l’età pensionabile ha raggiunto i 71 anni), crollerebbe il senso esistenziale di un’intera generazione. Immaginatevi di raggiungere la consapevolezza che la vostra vita immolata al lavoro non ha avuto alcun senso, che potevate fare altro, godervela di più, esplorare voi stessi e il mondo.
Credo che siamo allo spartiacque di un cambio culturale e che eliminare gli aspetti tossici del lavoro (l’ossessione per la produttività e la crescita a tutti i costi) sia necessario soprattutto in ottica di crisi ambientale – a cui il modello capitalistico continua allegramente a contribuire –. La cultura è principalmente lo sforzo di trovare modi migliori di vivere. In un certo senso è lo sforzo di comprendere la realtà e adattarvisi al meglio. O, con Flaiano, la cultura è il cerchio che la vita traccia attorno alla morte per tenerla a bada.
Il divario sarà sempre più ampio, così le tensioni che ne conseguiranno. È lo scontro tra due visioni esistenziali opposte e, a quanto pare, inconciliabili. Il mondo, volenti o nolenti, continua a cambiare. Sarà un parricidio o il dominio del Capitale resterà saldo?
Le domande sono tante e, ovviamente, questo discorso è molto più complesso di quanto fosse possibile mostrare in questo spazio. Per chi volesse approfondire (o avesse dubbi circa l’utilità del proprio lavoro) consiglio questo articolo di David Graeber.