top of page

Asabiyyah o della coesione nel nostro impero decadente

  • Writer: Alvise Bortolato
    Alvise Bortolato
  • Jun 10, 2024
  • 12 min read

“Non durerà. Tutto è cambiamento, tutto è effimero.”

John Stewart


 

Da qualche anno, anche grazie a una collaborazione con un politecnico finlandese, sto approfondendo il tema del nomadismo.

L’attrazione verso il mondo nomadico scaturisce dalla mia esperienza personale. Il sentimento di meraviglia e stupore verso il nuovo e il diverso, la sensazione di benessere che mi offre il moto, l’irrequietezza e l’insofferenza verso le forme in cui le società stanziali si sono ordinate. Esplorare il rapporto tra mondo nomadico e mondo stanziale significa apprendere una storia diversa da quella scritta ad uso e consumo di una visione stanziale – e quindi materiale – dell’esistenza.

Storia che, per inciso, ci vede nomadi per la quasi totalità della nostra presenza sul Pianeta. 

 

Asabiyyah

 

Di recente ho letto Nomadi di Anthony Sattin, una ricostruzione storica e culturale del nomadismo attraverso, per citare il sottotitolo, i popoli in cammino che hanno plasmato le nostre civiltà. Nel capitolo dedicato all’impero arabo-musulmano, si riportano passaggi tratti dal Muqaddimah in cui Ibn Khaldun espone la sua visione della storia universale e ciclica. Nato nel 1332 a Tunisi, vide la disgregazione dell’impero arabo e conobbe Tamerlano, altro imperatore nomade. Sociologo, filosofo e storico, Ibn Khaldun è considerato uno dei più importanti studiosi del Medioevo, nonché padre della storiografia, della sociologia, dell’economia e della demografia. 

 

“La visione del mondo su cui poggia la sua opera è quella in cui le cose non migliorano inevitabilmente con il passare del tempo. Questo aspetto è centrale nei suoi scritti. Invece di una «ascesa dell'uomo», di uno svolgimento della vicenda umana verso l'alto o anche verso il basso, egli vede in tutte le cose una sostanziale circolarità. Mentre la sua ruota della fortuna gira, mentre il ciclo dei mesi, delle stagioni e degli anni si ripete, il potere sorge, tramonta e cade, gli imperi compaiono e crollano, le città vengono fondate e vanno in rovina, le persone vivono e muoiono e tutto questo viene riassunto dalla polvere che si aggiunge alla polvere.”

 

Nomadi – Anthony Sattin

 

Il concetto che però mi ha colpito è quello che Ibn Khaldun identifica come il vero motore dell’ascesa di ognuno dei popoli di cui analizza la storia: asabiyyah.

Asabiyyah significa "sentimento di gruppo" o "coesione sociale", ed è un concetto di solidarietà sociale con un'enfasi sull'unità, sulla coscienza di gruppo e su un senso di scopo condiviso, originariamente utilizzato nel contesto del tribalismo e del clan.

 

Ibn Khaldun, la descrive come il legame fondamentale della società umana e la forza motrice fondamentale della storia, pura solo nella sua forma nomade (prima che il possesso e le nevrosi delle civiltà stanziali la contaminino). Ibn Khaldun sosteneva che asabiyyah è ciclica e direttamente determinante per l'ascesa e la caduta delle civiltà: è più forte all'inizio di una civiltà, diminuisce man mano che la civiltà avanza finché non arriva un'altra civiltà – con la propria asabiyyah – a sostituirla.

 

Allora mi sono posto qualche domanda sulla civiltà in seno alla quale sono nato e che, evidentemente, è avviata alla fase di decadenza pre-collasso del suo ciclo vitale.

Ora, semplificando molto, l’impero di cui fa parte la nostra civiltà è quello americano (che a sua volta è l’ultima metamorfosi dell’impero britannico), di cui siamo colonia sia economica che politica che culturale. C’è da segnalare che siamo in ottima compagnia, dal blocco NATO fino a tutti i paesi su cui gli USA hanno imposto la propria egemonia con guerre militari o economiche.

Ma se la nostra civiltà collassa, dopo essere assurta a potenza egemone mondiale negli ultimi 5-6 secoli circa, qual è stato il concetto attorno cui è sorta? Quale la sua asabiyyah?




 

Il dominio sulla Natura

 

Credo che la grande promessa dell’Occidente a sé stesso sia stata all’incirca: più riusciremo a dominare il mondo meglio vivremo. Il patto sociale di Rousseau, l’uscita dallo stato di natura per sottomettersi alla civilizzazione in cambio di protezione da tutto ciò che viene ritenuto esterno alla propria cultura. Lo sforzo degli occidentali, sia nei propri leader che nei propri cittadini, è stato di dominare il mondo, ridurlo a risorsa da cui trarre profitto con cui migliorare le proprie condizioni di vita. E siccome la misura tangibile del dominio consiste nel denaro che se ne ricava, ecco il nucleo da cui si irradia il resto. Da qui la diffusione della globalizzazione, la volontà di essere il centro di potere del mondo, la convinzione di rappresentare il miglior modello di sviluppo possibile che, per forza di cose, tutti devono desiderare o a cui devono per lo meno sottomettersi (per un loro ipotetico bene che maschera il proprio vantaggio di sfruttatori).

 

Forse è l’ingovernabilità della Natura, la sua indifferenza verso il destino dell’unica tra le sue creature fornita di hybris, l’umana tracotanza, il fatto che “hey amici, le risorse finiscono e l’inquinamento ci uccide mentre passiamo il tempo a lavorare e basta” ad aver incrinato la fede.

Il patto sotteso alle civiltà è di far uscire gli individui dallo stato in cui la natura li tiene sotto costante minaccia. Ma se la natura si rivela indomabile, a che serve quel patto e le costrizioni che porta con sé?

 

Ora, essere prossimi al punto di collasso dell’impero cui si appartiene produce inevitabili storture e perversioni ammantate di decadenza e senso della fine. In sostanza, si smette di percepirsi all’interno della storia e si continua a spron battuto verso il precipizio, con noncuranza e senza alcuna volontà di invertire la rotta. Anzi, spesso si sparano i fuochi d’artificio: la fine degli imperi corrisponde al momento di massimo fasto e opulenza.

 

“Alcuni antropologi hanno definito i primi cacciatori-raccoglitori come una sorta di «società del benessere originale». Il punto rimane controverso, anche se a me sembra convincente. L'antropologo statunitense Marshall Sahlins ha calcolato, per esempio, che la maggior parte di quei lontani abitanti della terra dedicava circa una ventina di ore alla settimana per nutrirsi, e questo implica che per «la metà del tempo a loro disposizione le persone non sapessero che cosa fare». Ma non è da escludere che lo usassero per ridere, amare, cantare, ballare.”


Nomadi - Anthony Sattin

 

 

Una società dipendente dal lavoro (inutile)

 

Alcune storture sono evidenti, come il lavoro che ha finito per assorbire l’intero orizzonte esistenziale, nel tempo quotidiano in primis e nelle energie mentali che gradualmente riducono il pensiero a una pozzanghera asfittica. E pensare che nella storia dell’umanità, in nessuna società gli individui hanno dedicato tanto tempo al lavoro come oggi che la tecnologia sembrerebbe in grado di mantenere la promessa di liberarcene.

 

Ma allora come mai la gente è sempre più spremuta dal lavoro nonostante la tecnologia assorba sempre più occupazioni prima svolte da umani? L'associazione del lavoro con la sofferenza virtuosa è recente nella storia umana. Che il lavoro nobiliti l’uomo o che lo renda libero sono concetti di puro indottrinamento capitalista.

 

In Bullshit Jobs, l'antropologo statunitense David Graeber afferma che i progressi nella produttività grazie all'automazione non hanno portato a una settimana lavorativa di 15 ore, come prevedeva l'economista John Maynard Keynes nel 1930. Al contrario, sono emersi "lavori inutili": lavori retribuiti che si rivelano talmente inutili, superflui o dannosi che il dipendente non riesce a giustificarne l'esistenza. Tuttavia, come parte delle condizioni di impiego, il lavoratore è costretto a fingere il contrario. Nonostante tali lavori possano garantire un buon salario e tempo libero, Graeber sostiene che l'assenza di senso nel lavoro eroda l'umanità dei lavoratori e generi un'intensa violenza psicologica.

Come notava già Giuseppe Rensi, il lavoro non nobilita l’uomo anche se la società capitalista considera il lavoro un’attività tanto etica quanto religiosa. Graeber attribuisce all'etica del lavoro puritano-capitalista il ruolo di aver trasformato il lavoro nel capitalismo in un obbligo religioso. Ma sul tema del sacro torneremo più tardi.

 

“[…] da esemplare filosofo col martello [Rensi] dimostra qui come il vero destino dell’uomo sia l’ozio e il gioco, l’arte, la passione per le scienze, qualsiasi attività suscettibile di sfuggire all’obbligo e al diktat del denaro, e che dunque una società basata sul lavoro salariato è una società che legittima, perpetra e struttura il più spudorato schiavismo.”

 

Resta il fatto che, a prescindere dall’utilità della propria professione, essere poveri nel capitalismo pur lavorando è una nuova forma di schiavismo che usa il salario come catena. Funzionava finchè lo storytelling che “l’estensione del dominio sulla Natura renderà la vita fantastica a tutti” ha retto. Finchè si lavorava per alimentare il sistema che prometteva di realizzare (e in parte lo ha fatto) quella promessa. Ma ora che lo sforzo sembra interminabile e la ricompensa sempre più sbiadita e insoddisfacente, ci si domanda che senso abbia vivere così. Ma non se lo chiedono i soliti oziosi intellettuali, iniziano a domandarselo in molti, e a lasciare i propri lavori. Che senso ha tutta questa costante stanchezza, e la rabbia, e il vuoto? Dove mi sta portando, dove ci sta portando tutti?

È il dilagare dei dubbi che fa crollare gli imperi. Il principio che teneva in piedi la società, la sua asabiyyah, si sgretola.

 

“Da allora la maggior parte di noi ha finito per diventare stanziale e nell'ultimo secolo lo ha fatto addensandosi soprattutto nelle città. Questo decisivo cambiamento di stile di vita, fuori dal mondo naturale e dentro le mura, ha trasformato alcuni in ragazzi disordinati, partner inaffidabili, tossicodipendenti, amanti del brivido, del gioco d'azzardo e del rischio, e ha lasciato altri a lottare per resistere al richiamo del vagabondaggio, al desiderio di una vita diversa, alla promessa di un nuovo luogo, di un nuovo contesto o di un altro partner.”

 

Nomadi - Anthony Sattin

 


Il problema del capitalismo col sacro

 

Senza coesione sociale, però, la solitudine dilaga e con essa i tentativi di auto-inganno o inganno collettivo per illudersi non sia così. Prendete i social network e l’idea di connessione umana che promettevano, e poi chiedetevi se aiutano le persone a sviluppare relazioni umane o se invece le isolino ulteriormente, rendendo troppo invitante innalzare filtri e maschere o indulgere nel self-branding. Prendete la generale tendenza ad alienarsi dalla realtà, che sia attraverso un perpetuo produrre – privo di tempo di ozio riflessivo – o attraverso le sostanze stupefacenti.

Restare coesi, far propria l’asabiyyah del futuro, edificarla attorno a una visione di come abbia senso vivere. Individuare il sacro, renderlo centrale e difenderlo.




 

Peccato che nelle società occidentali il senso del sacro si sia perduto pressochè del tutto. Le civiltà tribali, native, arcaiche sono le uniche che vivono nel sacro, perché si riconoscono parte della natura.

Nella visione che contrappone cultura a natura, sviluppiamo l’idea che il mondo naturale sia qualcosa di altro da noi e ci arrochiamo in una presunzione di superiorità inter-specie. Nella visione di successo sociale come competizione siamo spinti all’individualismo, all’intendere la società e gli altri come strumenti da sfruttare per i nostri fini.

Finiamo a ridurci a monadi sole in un territorio che, proprio per la rinuncia a comprenderlo e viverlo (la Territà teorizzata, tra gli altri, da Meschiari) e per la volontà di sfruttarlo, è divenuto ostile.

 

Più a lungo una società si evolve nel capitalismo più si dissolve il senso del sacro. Proprio perché il capitalismo, da sistema economico, si tramuta in forma mentis. Ergo, gli individui stessi pensano in termini puramente utilitaristici, unicamente di profitto. E allora qualsiasi ideologia, incluse quelle legate al sacro, vengono trasformate in leve di marketing. Lo Yoga? Da pratica ascetica di disciplina morale e di condivisione a trend di mercato da cavalcare sull’onda del binomio salute-bellezza in salsa eco-mistica orientaleggiante. L’ecologia (ovvero il pensare in termini naturali di inter-connessione) assorbita come ideologia e risputata come leva di marketing, quando non greenwashing. Stesso discorso per lo sport, i cui valori originari non hanno a che fare col circo mediatico e multimilionario che è diventato oggi in moltissime discipline. Eppure, si usa ancora la retorica degli eroi in campo per vendere biglietti e magliette, nonostante la gran parte degli sportivi non sia altro che mercenari pagati che spesso vivono lo sport puramente come un lavoro, senza alcuna passione.

 

 

La fine del capitalismo come asabiyyah?

 

Eppure anche il capitalismo, il cui principio sotteso è di conquistare il mondo per renderlo risorsa profittevole, è solo una delle forme in cui nella storia si è manifestata l’asabiyyah. In fondo, è un impero e come tale ha compiuto conquiste, si è espanso, e infine ha iniziato a incancrenirsi. Se aveste chiesto a un romano del tardo Impero se Roma sarebbe durata per sempre avrebbe risposto con assoluta certezza di sì. Il capitalismo ha offerto l’illusione che il mondo fosse uscito dalla storia e che si reggesse sugli scambi commerciali figli del capitalismo globalista, che la visione di benessere materiale fosse l’unico orizzonte di senso desiderabile da ogni essere umano, che questo fosse destinato a durare per sempre.

 

Un celebre adagio (di volta in volta attribuito a Slavoj Žižek o a Fredric Jameson) recita che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Mark Fisher in Realismo Capitalista ha evidenziato come il there is no alternative, con cui la Thacher liquidava le proteste contro il sistema esistente (il capitalismo, s’intende) alla fine sia evaso dalla sfera strettamente politico economica per invadere l'intero incoscio colletivo. Ha permeato la mente, come un parassita, e l’ha ingabbiata in un paradigma di pensiero auto-referenziale. Pensare in termini di utile, di vantaggio, di profitto.

Come Fisher ricorda nel libro, il capitalismo semplicemente occupa tutto l’orizzonte del pensabile. E oltre l’orizzonte del pensabile non c’è nulla. Come ritornare a pensare al di fuori? Come immaginare futuri post-capitalismo?




 

 

Ora, formule magiche temo non ne esistano. Ma se il collasso della civiltà occidentale è un fatto per certi versi fisiologico e inevitabile, resta da capire come comportarsi in quanto individui.

Partirei da un presupposto che resta sempre valido: la natura intrinseca del potere è la conoscenza. Più cose so su qualcosa o su qualcuno, più ho potere su di essi. Allora, per quanto doloroso, nessuna risposta adattiva può prescindere dall’osservare con attenzione la realtà, accettare che sia diversa e ben più complessa rispetto all’idea che ne avevamo, e tentare di comprenderla.

 

“La nostra società è dipendente dal lavoro. Se c’è qualcosa su cui destra e sinistra sembrano essere d’accordo, è che i posti di lavoro siano una cosa positiva. Tutti dovrebbero avere un posto di lavoro. Il lavoro è il nostro distintivo di cittadinanza morale. Sembra che ci siamo convinti, come società, che chiunque non stia lavorando più duramente di quanto vorrebbe fare, in qualcosa che non gli piace, sia una persona cattiva e indegna. Di conseguenza, il lavoro arriva ad assorbire proporzioni sempre maggiori della nostra energia e del nostro tempo.

Gran parte di questo lavoro è completamente inutile. […] Il sistema non ha senso. Sta anche distruggendo il pianeta. Se non ci liberiamo rapidamente di questa dipendenza, lasceremo i nostri figli e nipoti ad affrontare catastrofi su una scala che farà sembrare banale l’attuale pandemia.”

 

 

 

Fare, fare e fare senza interrogarsi mai porta con sé il considerevole rischio di trovarsi a fine corsa spompati e soli. Come partire da una valle lussureggiante e scoprirsi in un deserto se per caso ci si sfila il paraocchi. Come si convive con la consapevolezza di aver “sprecato” la propria vita? Vero o falso che sia, come ci si sente a sapere che per un lavoro che nemmeno ci piaceva abbiamo sacrificato tutto il resto, tutto ciò che solo a quel punto ci accorgiamo essere sacro?

 

Prendere atto

 

Ammettere che c’è una quantità crescente e dilagante di sofferenza che inghiotte gli individui. Riconoscere che moltissime persone sono spiritualmente spezzate, svuotate, incapaci di reagire proprio perché non c’è nessuna molla da far scattare, nessun interesse da approfondire, nessun sacro per cui battersi. Ammettere che trincerarsi dietro ai soldi o al successo che dovrebbero attestare sia una strategia che funziona forse di facciata, attecchendo solo su solitudini altrettanto disperate che hanno bisogno di credere che “farcela” ripaghi per tutto quel dolore, per tutta quella miseria. Ammettere che così facendo il futuro scompare, ma anche il presente e molte delle cose significative che può essere un’esistenza. Prendere atto che la depressione non è un fatto individuale ma una malattia di massa, un’epidemia contagiosa.

Ammettere che siamo in una fase (iniziale? molto lunga?) di collasso del sistema che, per quanto sbagliato, fornisce le impalcature su cui poggia la nostra esistenza planetaria.

 

Il problema, poi, è anche di auto-riflessione individuale. Chiedendo alle persone perché non gradiscano la loro esistenza e cosa farebbero di diverso per migliorarla, solitamente non si ottiene alcuna risposta. Senza prendersi tempo ozioso per pensare non c’è modo di comprendere. Serve il coraggio di fare tentativi senza alcuna certezza di risultato, per perseguire qualcosa a prescindere dai risultati. Spostare la motivazione dalla pura ricompensa economica alla devozione per ciò che è sacro, ciò che da senso all’esistenza. Continuare a scegliere, a interrogarsi, a creare sé stessi. A che visione del mondo sto contribuendo?

 

“Ritorna in te stesso e guarda: se non ti vedi ancora interiormente bello, fa come lo scultore di una statua che deve diventar bella. Egli toglie, raschia, liscia, ripulisce finché nel marmo appaia la bella immagine: come lui, leva tu il superfluo, raddrizza ciò che è obliquo, purifica ciò che è fosco e rendilo brillante e non smettere di scolpire la tua propria statua interiore, finché non ti si manifesti lo splendore divino della virtù e non veda la temperanza sedere su un trono sacro.” 

 

 Enneadi I, 6, 9 - Plotino

 


Conosci le tue relazioni

 

La celebrazione occidentale dell’individualità e dell’ego ha depotenziato e occultato la centralità delle relazioni. Eppure, senza essere in relazione con ciò che è altro, nemmeno esistiamo. Senza occhi che ci guardano non siamo visibili, senza orecchie che ci ascoltino restiamo muti. Così come senza rapporto con l’aria non respiriamo, senza rapporto con l’acqua non beviamo. Insomma, esistiamo soltanto all’interno di relazioni. Se viviamo male è, soprattutto, perché ci relazioniamo male.

 

“And did you get what

you wanted from this life, even so?

I did.

And what did you want?

To call myself beloved, to feel myself

beloved on the earth.”


Late Fragment – Raymond Carver

 

(“E hai ottenuto quello che / volevi da questa vita, nonostante tutto? / Sì. / E cos’è che volevi? / Potermi dire amato, sentirmi / amato sulla terra.//”)

 

Allora, questa fitta rete che ci rende parte del tutto, tocca comprenderla per evolvere il modo in cui appartenervi. Ricalibrare le relazioni.

 

Con i nostri desideri, valutando se inseguirli senza nemmeno capire chi ce li ha messi in testa o se cercare di equilibrarli.

Con gli altri, che possono aiutarci a capire chi siamo, permetterci di fare cose inimmaginabili anche per noi stessi, o essere trattati come risorsa da sfruttare per il nostro vantaggio personale.

Col mondo naturale degli ecosistemi, si instaurare una relazione tesa all’equilibrio nell’arricchimento reciproco o perseguire la depredazione fingendo che non ci si ritorca contro.

Col sistema socio-economico in cui viviamo, se continuare ad alimentare lo stesso meccanismo che ci impoverisce, che ci spreme fisicamente e mentalmente, che assorbe sempre più tempo, o progettare e realizzare alternative.

 

Chiedersi se questo è il migliore dei modi possibili in cui usare il proprio tempo su questa terra e, se non lo è, chiedersi quali altri modi possiamo perseguire e come.

Ecco, forse, che la promessa del prossimo “impero”, la sua asabiyyah, potrebbe diventare: perseguiamo tutti assieme la saggezza per trovare l’equilibrio, e vivremo tutti meglio. Magari, stavolta, davvero tutti.

 

 

“Voi uomini bianchi pretendete che noi ariamo la terra, che tagliamo l'erba, che da questo otteniamo del fieno e lo vendiamo, affinché diventiamo ricchi.Voi uomini bianchi conoscete solo il lavoro. Io non voglio che i miei giovani uomini diventino uguali a voi. Gli uomini che lavorano sempre non hanno il tempo per sognare, e solo chi ha tempo per sognare trova la saggezza.”


Smohalla

bottom of page