Annotazioni frammentarie sul senso di un corpo
- Alvise Bortolato
- Dec 29, 2021
- 4 min read
Updated: Apr 3, 2024
Questo scritto è parte del progetto "The Sketchbook Project" di Eye of Ray (fondato da Martina Formilli Fendi e Margherita Sperati) in cui trasformare un bozzetto in un testo, creando un dialogo tra due differenti linguaggi.

Cara Martina,
guardo i tuoi bozzetti e cerco di scorgervi i tuoi pensieri, ciò che ha mosso la tua mano sul foglio. Lascio fluire in queste righe – spero mi perdonerai la forma frammentaria tipica degli appunti – le riflessioni che ne sono scaturite.
Osservo le linee che compongono questi corpi senza volto, quasi che la mente fosse sempre altrove, costantemente in fuga dai limiti materiali della corporeità. Carne che cerca una qualche trascendenza, il desiderio di farsi eterei e sfuggire alle leggi dello spazio e del tempo.
Cos’è oggi un corpo?
C’è qualcosa di inafferrabile in ogni corpo, qualcosa che trasuda il fascino corrotto della molteplicità, per dirla con Flaubert. Ogni corpo è identico a sé stesso, ed è solo nella nostra costante necessità di etichettare e categorizzare ogni cosa che le differenze diventano pregi o difetti. Nel costante sforzo di fissare qualcosa di ineffabile, come la bellezza, ci si vincola a canoni e definizioni. In una società della performance e dell’individualismo, l’aderenza al canone sfocia ben presto in ossessione. Il vizio del perfezionismo di alzare costantemente l’asticella produce un meccanismo perverso di insoddisfazione e ansia annebbianti.
Il corpo diventa dunque una prigione e uno specchio distorto della propria consapevolezza di sé. Forse per questo i tuoi bozzetti non hanno volto o sguardo, sostituito da spicchi di luna o raggi di luce. O, addirittura, dal nulla. Sono corpi senza mani o in posizioni che le nascondono, quasi vigesse il ferreo divieto di toccarsi. O che il contatto umano facesse paura.
Corpi armoniosi e intoccabili, nudi o appena celati dalla biancheria intima, sdoppiati e sfocati nei contorni, evanescenti e autentici nel loro esporsi allo sguardo altrui. Il corpo nella sua naturale sensualità repressa da millenni di società e culture. L’erotismo che come un fiume carsico scorre inaccessibile a censure e bigottismi, fino a sgorgare in una società pornografizzata e ossessionata dal sesso. Corpi che devono essere perfetti per una certa forma di desiderio sessuale, belli in quanto funzionali a dare godimento non soltanto estetico. Corpi per eccitare, strumento attraverso cui ottenere piacere sessuale.
Il corpo è la membrana tra la nostra coscienza e la realtà esterna, spesso spietatamente sincera. Per questo, a volte, lo usiamo come barriera. Come fosse il muro di cinta che deve proteggerci dall’assedio esterno, o contenere il marasma anarchico che si agita internamente. Noi usiamo il corpo per ingannare la mente, attraverso sostanze di ogni genere. Ogni cosa che il nostro corpo percepisce influenza ciò che siamo in modi molto più sottili di quelli di cui siamo coscienti.
Dal canto mio credo che il corpo sia, a tutti gli effetti, un mezzo attraverso cui godere. Ma non si tratta di un godimento sessuale, almeno non esclusivamente.
Il corpo ci permette di percepire, di esplorare, di conoscere. Il corpo ci consente la spazialità e il moto, la sensorialità conduce alla conoscenza. Andarcene in giro per il mondo, noi strani bipedi, ad osservare, annusare, toccare, assaggiare, ascoltare.
“La nostra natura consiste nel movimento. La quiete assoluta è morte.” Pascal
D’altronde, ogni cosa (corpi inclusi) è soggetta al costante incedere del tempo. Ogni cosa subisce incessante metamorfosi e gli unici elementi di stabilità dell’universo sono immobili solo illusoriamente, e cioè quando i nostri sensi ci ingannano sul loro trasformarsi.
Gli atomi che oggi, nel loro aggregarsi, formano il nostro corpo sono appartenuti a chissà chi o cosa. Un tirannosauro o Galileo Galilei, la foglia di un albero estinto o il frammento di roccia proveniente da chissà che angolo dell’universo. Noi siamo tutto questo e molto altro saremo.
Ogni sette anni, poi, la totalità delle nostre cellule si rinnova. Non siamo, fisicamente, lo stesso agglomerato di materia. Ci scomponiamo e ricomponiamo costantemente, prendiamo e perdiamo parti di noi in ogni istante. Per questo c’è sempre una tensione tra il voler conservare e cristallizzare la bellezza e accettarne la natura metamorfica. I segni del tempo conferiscono una particolare bellezza legata al resistere. La patina del legno, l’ossidazione dei metalli, le rughe di un volto.
Quindi, alla fine, esiste davvero il corpo? Davvero ha senso il nostro assegnargli un’identità tanto netta, tanto importante per la percezione che abbiamo di noi stessi? Abbandonarci a malinconia e frustrazioni quando vediamo lo vediamo cambiare, quando ciò che ci pareva bellezza si evolve e noi non riusciamo a vederne la continuità?
Ciò che mi aspetto dal mio corpo è di sfruttarne le possibilità di godimento, che sia sensuale o intellettuale. Che tanto, in fondo, nulla di ciò che siamo rimarrà stabile. Se c’è un’eternità, non può che risiedere nel farsi altro, accettando che la nostra identità non sia mai netta e separata dal resto come cerchiamo di illuderci per darci consistenza. Come disse Munch: “Dal mio corpo in putrefazione cresceranno dei fiori e io sarò dentro di loro: questa è l’eternità.”
Ecco, cara Martina, prendersi cura del proprio corpo non è altro che prendersi cura dei fiori che verranno. Come ogni cosa, torneremo a fiorire.